C’è stato un tempo (felice?) in cui dopo essersi accomodati al proprio tavolo in ristoranti e trattorie si leggeva il menù e si avvertiva la necessità di chiedere spiegazioni. I nomi dei piatti, a meno che non fossero familiari e rassicuranti come una carbonara o una puttanesca, si riferivano invariabilmente a cose che unicamente il titolare del locale, la sua famiglia, i suoi amici o i suoi compaesani potevano conoscere.
Piatti personali o personalizzati come, che so, gli gnocchi alla zi’ Antonio; piatti strettamente locali, alla santeramese o alla morconese; oppure autoreferenziali, “della casa” o “a modo nostro”; o ancora avari di parole fino a giungere alla pura enunciazione della materia prima di base: “bucatini / penne / fettuccine”; per non dire della lunga teoria di piatti con aspirazioni ecumeniche: semplicemente “all’italiana”.
Il trionfo della semplicità, comunque. Però, se con uno sforzo modesto di fantasia era possibile intuire gli ingredienti dei rigatoni all’ortolana o farsi un’idea dei bucatini del pastore che, in un modo o nell’altro, dovevano vantar parentele con gli ovini, il gioco si faceva duro in presenza della scaloppina alla mamma Marietta o dello stufato alla sandamianese; indotti dal pudore, quando il numero dei piatti con denominazioni tanto criptiche eccedeva il ragionevole, si preferiva non informarsi su tutti ma al massimo su due o tre e costringersi a mandar giù un qualsiasi aio e ojo per non sentirsi importuni e anche un po’ per sfuggire alla minaccia delle “linguine fantasia” o alla tirannide del menù turistico.
Tempi diversi che ispirano tenerezza, come le “buone cose di pessimo gusto” di Gozzano, soprattutto se confrontati con l’oggi. Un oggi in cui prevale l’inclinazione al didascalico, con menù che richiedono letture sfiancanti e impongono talvolta non nomi di piatti ma definizioni e descrizioni che si addentrano nel più minuscolo dettaglio.
Da un minimo di tre a un massimo di cinque righe a seconda che il ristoratore abbia scelto la versione uno o la versione due del menù iperrealista:
1) con elencazione di ogni singolo ingrediente e relativa provenienza;
2) con elencazione di ogni singolo ingrediente, relativa provenienza più nome del produttore.
Menù nei quali anche l’isolato ago di rosmarino riceve l’onore della citazione, anche il milligrammo di curcuma casualmente entrato in contatto col cibo rivendica il proprio ruolo.
Si aggiunga che, dopo che il cliente ha ordinato non senza fatica, riceve il suo piatto e con il piatto gli viene inflitta un’articolata spiegazione. Mentre la scaloppina alla mamma Marietta non te la spiegava nessuno a meno che non fossi tu a chiedere lumi, e anche allora sembrava quasi che stessi ammettendo una colpa, il “branzino di Shangri-la cotto a bassa temperatura su letto di zucca moscata di Provenza (croccante) leggermente saltata e aromatizzata all’aceto di Villahermosa e al timo serpillo di Mavalà, con crema di patate Charlotte al latte di Pezzata Rossa, burro demi-sel di Normandia e sale affumicato delle Ebridi” sentono la necessità di spiegartelo, Dio sa perché. Quando è già in tavola, sta raffreddandosi e la mano già poggia sulla forchetta ma non osa, giammai, darle di piglio.
Per tacere delle consistenze che invadono il menù in ogni forma possibile: ingredienti “semiconsistenti”, “inconsistenti” “in due consistenze” e via così, fino ad arrivare alla scoperta che un’insalata con la tale o talaltra consistenza altro non è che un mucchietto di songino; e dell’aggettivo possessivo onnipresente: il “suo” succo, la “sua” julienne; il temibile aggettivo possessivo che ricompare in altra forma a suscitare dubbi sulla natura di ciò che potrebbe essere comprensibile a tutti: il “nostro” tiramisù, la “nostra” mousse al cioccolato. Parole che fanno crollare ogni certezza, ogni speranza di trovare comodo rifugio nel già noto.
Ma c’è un’altra tendenza che sembra dominante nella denominazione dei piatti: il balzo verso l’immaginifico. Se vi trovate di fronte a un “Mare che sfiora la terra” o a un “Danzando sulla spiaggia di Bahia”, state attenti: è assai probabile che in cucina ci sia un dilettante che guarda troppa televisione. Una cucchiaiata di yogurt trasforma un dessert in “Aurora sul Bosforo”, due spezie a stento percettibili compiono la metamorfosi dell’agnello in “Cavalcando coi Berberi”, qualche cozza acquattata sotto una zuppa di fagioli proietta verso un ungarettiano “Porto sepolto” nel tentativo un po’ ingenuo di conferire nobiltà e mistero a ciò che resta cibo, per quanto nobile sia.
Tra il non dir niente e il dire troppo, personalmente vagheggio la virtù della medietà, per un menù che sia amichevole, accattivante e non pretenzioso. Altrimenti mi toccherà auspicare il grande ritorno dello zi’Antonio e dei suoi gnocchi. A modo suo.