Color fuoco, meglio se brillante: la paprica, spezia aromatica e non necessariamente piccante, non è un’esclusiva dell’Ungheria e viene da lontano, ma in Ungheria ha trovato una casa ospitale e ci si è accomodata.
La storia della paprica e del suo viaggio fino al Danubio è controversa. Dato per assodato che tutto risale ai viaggi di Colombo nelle Americhe, poiché com’è noto prima di allora il peperone era sconosciuto in Europa, non tutti però concordano su ciò che è avvenuto in seguito.
C’è chi ritiene che dalla Spagna si sia diffusa nel resto del continente, chi afferma che invece in Ungheria sia stata portata dai Turchi, che dominarono il paese per oltre 150 anni e che l’avrebbero introdotta dai loro possedimenti in Arabia e in Africa settentrionale; altri ancora sostengono che sia arrivata in Ungheria grazie ai popoli balcanici in fuga per l’avanzata dei Turchi, confortati nella loro ipotesi dal fatto che la parola “paprika” deriva dal serbo-croato “papar” (pepe). Sembra comunque che la pianta di peperoni utilizzata per la produzione della paprica ungherese sia gemella di una pianta indiana, mentre quella spagnola è indubitabilmente proveniente direttamente dall’America centrale.
Dubbi e incertezze che nulla tolgono alla realtà attuale: la cucina ungherese è un inno alla paprica e l’Ungheria ne esporta circa 3000 tonnellate l’anno in tutto il mondo. E’ significativo che un’intera categoria di piatti tipici ungheresi a base di pollo, coniglio, vitello e agnello sia denominata paprikàs.
Il successo della spezia non è antichissimo. Fu alla fine del secolo XVIII che il miglioramento del metodo di macinazione dei peperoni e le guerre napoleoniche lo favorirono. A causa del blocco continentale imposto da Napoleone, il pepe, da sempre ricercato sia come insaporitore che per la conservazione degli alimenti, divenne irreperibile, e la paprica ne diventò la sostituta.
La sua popolarità in Ungheria fu tale che essa, chiamata all’epoca “pepe turco”, finì per mettere ai margini le erbe tradizionalmente usate nella cucina di quel paese; ma perché si imponesse nel resto dell’Europa e nell’alta cucina bisognò aspettare che Georges Auguste Escoffier, nel 1879, la introducesse nei piatti del Grand Hotel di Montecarlo, dopo averla acquistata a Szeged, che è tutt’oggi, insieme a Kalocsa, la capitale della paprica ungherese.
A Szeged la produzione della paprica è attestata da almeno 250 anni. La città si trova in una delle zone di più lunga insolazione del paese, e la pianta del peperone da paprica, benché molto resistente al clima, ha bisogno di sole e calore per sviluppare al massimo colore e aromi. La semina avviene tra il 15 marzo e il 4 aprile; il raccolto, effettuato a mano, ha inizio ai primi di settembre e termina solitamente verso la fine di ottobre. La successiva essiccazione dei peperoni prevede due fasi: nella prima i frutti vengono legati insieme in collane, facendo passare un filo attraverso i piccioli, e appesi al sole per completarne la maturazione. In questa fase i sapori e gli aromi si concentrano, i frutti perdono acqua e il colore diventa più vivo. Quando la loro tonalità rossa giunge al suo massimo splendore, i peperoni vengono lavati e messi ad essiccare al sole. Poi, impacchettati, vengono stivati in attesa della macinazione.
Si inizia sterilizzando i frutti a vapore per eliminarne germi, sporco, pesticidi e contaminanti. Poi si passa alla vera e propria fase di macinazione, effettuata per mezzo di un mulino a pietra: le pietre, toccandosi, sviluppano calore che fa sì che gli oli contenuti nei semi vengano rilasciati e avvolgano le parti carnose del peperone, impedendone l’ossidazione. Ma è importante che il calore sviluppato dalla macina non sia eccessivo, perché i peperoni da paprica essiccati contengono un’alta percentuale di zuccheri che brucerebbe, conferendo al prodotto finale un gusto amaro.
Per ottenere un chilo di paprica sono necessari circa 7 chili di peperoni, ciascuno dei quali ha un peso di circa 20 grammi. E parliamo di peperoni perfetti: la selezione è rigorosa, qualsiasi frutto che presenti macchie o difetti viene scartato.
Il prodotto finale è una polvere che può avere diversi gusti, aromi e consistenze. Si parla di sette differenti qualità di paprica, ma a volte anche di dieci, riconducibili a due gruppi: la paprica dolce (édes) e quella forte (erös). A conferire la piccantezza alla paprica è una sostanza detta capsicina contenuta nei semi e nei filamenti interni dei peperoni, perciò in corso di macinazione è possibile regolare il gusto della paprica aggiungendo o eliminando queste parti. L’operazione è stata resa più semplice dai fratelli János e Balázs Pálffy, che alla metà del XX secolo inventarono una macchina in grado di rimuovere semi e filamenti. Dalla loro invenzione ebbe origine la paprica più apprezzata, la édesnemes (dolce sopraffina) che compì la definitiva conquista delle tavole europee.
E’ importante sapere che a un colore rosso vivo corrisponde una paprica più dolce e aromatica, mai piccante, e che è questa la paprica normalmente usata nella maggior parte dei piatti ungheresi tradizionali, motivo per cui negli ingredienti troverete sempre dosi abbondanti, improponibili nel caso si riferissero alla paprica piccante, e che invece conferiscono le tipiche sfumature speziate ai gulyàs e agli altri piatti tipici del paese.
Le varietà piccanti di paprica sono tre: felades, o semidolce, di media piccantezza; rozsa, o rosa, dal colore pallido e dal gusto piccante pronunciato; erös o piccante, la più forte, il cui colore va dal giallo scuro al marrone.
La paprica dolce ha un contenuto di capsicina inferiore ai 100 mg/kg, quella media tra i 100 e i 200 e la più piccante supera i 200 milligrammi di capsicina per chilo.
Quanto all’uso della paprica in cucina non va mai dimenticato che la spezia contiene zuccheri che brucerebbero e la renderebbero amara se fosse soffritta nel grasso. Va aggiunta agli stufati allontanando la pentola dal fuoco e solo quando si uniscono al soffritto di base, solitamente di cipolla, i liquidi e/o gli altri ingredienti. D’altro canto, aggiungerla invece troppo tardi o addirittura a fine cottura serve soltanto a conferire colore ai cibi: perché aromi e sapori si sviluppino al meglio è necessario che cuocia insieme agli altri ingredienti. Va comunque usata con generosità, preferendo, ovviamente, la varietà dolce.
Avremo modo di incontrarla ancora, a breve, chiacchierando di gulyàs.