Vi abbiamo parlato, in passato, di due piatti che attraversano l’Italia, con alcune varianti, in lungo e in largo: la pasta e fagioli e la parmigiana di melanzane. Ma il piatto italiano per antonomasia, quello a cui pensa (insieme alla pizza) qualunque straniero al sentire nominare la cucina italiana, quello quotidiano ma più complesso di quanto appaia, è lei: la pasta al pomodoro.
Spaghetti, preferibilmente. Ma, secondo i gusti, anche pasta corta: paccheri, mezzani, penne. O i vermicelli, che a Napoli trovano spesso più favore degli spaghetti stessi. In ogni caso, la pasta al pomodoro è il piatto più italico che ci sia: trasversale perché amato e consumato dalle Alpi a Lampedusa, eterno, fondamentale, immarcescibile.
Sembra incredibile, ma la pasta al pomodoro è giovane, se giovane si può definire ciò che ebbe i natali ufficiali nell’800. Il pomodoro, lo sappiamo tutti, giunse a noi dall’America meridionale soltanto nel XVI secolo. Da allora e fino al XIX si fece largo a fatica nella gastronomia. Utilizzato come pianta ornamentale, considerato tossico dai più, ebbe il suo primo utilizzo gastronomico attestato proprio in Italia, nello “Scalco alla moderna” di Antonio Latini, stampato a Napoli nel 1692. Là compariva in una salsa, definita “alla spagnuola”, con cipolla, timo o maggiorana, aceto, e destinata ad accompagnare soprattutto le carni.
Salsa di pomadoro, alla spagnuola
Piglierai una mezza dozzena di Pomadoro, che sieno mature; le porrai sopra la brage, à brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v’aggiungerai Cipolle tritate minute, à discretione, Peparolo pure tritato minuto, Serpollo, ò Piperna in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accomoderai con un po’ di Sale, Oglio, & Aceto, che farà una salsa molto gustosa, per bollito, ò per altro.
Per trovare il pomodoro come compagno della pasta bisogna attendere Ippolito Cavalcanti e i suoi vermicelli al pomodoro.
Siamo nel 1839, i pomodori sono già entrati nell’uso e finiti sulla pizza. Ma la pasta li incontra ufficialmente solo nella “Cucina teorico pratica” del Cavalcanti, appunto, trattato fondamentale per la storia della cucina napoletana.
Piglia rotoli 4 de pommodoro, li tagli in croce, li levi la semenza e quella acquiccia, li fai bollire, e quando si sono squagliati li passi al setaccio, e quel sugo lo fai restringere sopra al fuoco, mettendoci un terzo di sugna, ossia strutto di maiale.
Quando quella salsa si è stretta giusta bollirai 2 rotoli di vermicelli verdi verdi e scolati bene, li metterai in quella salsa, col sale e il pepe, tenendoli al calore del fuoco, così s’asciuttano un poco. Ogni tanto gli darai rivoltata, e quando son ben conditi li servirai.
E’ finalmente nata la pasta al pomodoro. In una versione un pochino austera, senza aglio né cipolla, senza basilico, ma è nata.
Per inciso, se vi state arrovellando su quel “vermicelli verdi verdi”, verdi verdi sta per “al dente”. Il Cavalcanti si sofferma sulla cottura della pasta, spiegando che va buttata nell’acqua “quanno volle justo mmiezo” cioè quando è a pieno bollore, e raccontando in proposito un aneddoto: un cuoco, per far dispetto al suo padrone, gettava la pasta quando l’acqua cominciava appena a fremere, senza aspettare il pieno bollore, ottenendo così dei maccheroni “lemmuse, ncolluse e senza sapore” (viscidi, collosi e insapori). E spiega: “…pecché, simbé l’acqua volle buono mmiezo, menannonce li maccaruni friddi, sempre perde lo vullo e besogna abbevì buono lo ffuoco pe piglià n’auta vota lo vullo; onne considera quanno po’ l’acqua non è ancora arrevata a chillo grado de calore…” (“…perché, anche quando l’acqua bolle al punto giusto, buttandoci i maccheroni freddi perde sempre il bollore e bisogna ravvivare bene il fuoco perché lo riprenda; perciò considera quando poi l’acqua non è neppure arrivata a quel grado di calore…”.
Ma tornando a noi, con Cavalcanti la pasta al pomodoro fa il suo debutto in società, dicevamo. Tanto da finire, un cinquantennio più tardi, tra le pagine dell’Artusi. Con cipolla e basilico, stavolta. E il burro:
Maccheroni alla napoletana
Per grammi 300 di maccheroni lunghi (spaghetti), che sono sufficienti per tre persone, mettete a soffriggere in un tegame o in una cazzaruola due grosse fette di cipolla con grammi 30 di burro e due cucchiaiate d’olio.
Quando la cipolla, che bollendo naturalmente si sfalda, sarà ben rosolata, strizzatela col mestolo e gettatela via. In quell’unto a bollore versate grammi 500 di pomodori e un buon pizzico di basilico tritato all’ingrosso; condite con sale e pepe, ma i pomodori preparateli avanti perché vanno sbucciati, tagliati a pezzi e nettati dai semi più che si può, non facendo difetto se ve ne restano. Col sugo condensato, condite i maccheroni e mandateli in tavola, che saranno aggraditi specialmente da chi nel sugo di pomodoro ci nuoterebbe dentro.
Invece dei maccheroni lunghi, possono servire le penne, anzi queste prenderanno meglio il condimento.
Da allora in poi, è stata tutta un’ascesa. Certo, lo spaghetto al pomodoro, con l’avvento dell’alta cucina anche in Italia, è finito a fare il cenerentolo, relegato alla cucina frettolosa, ad essere il rifugio dei massai e delle massaie dalla dispensa vacante. Ma poi si è preso la sua bella rivincita. E’ diventato il piatto simbolo di Alfonso Iaccarino, ad esempio, ed è entrato così nei ricettari “nobili”, messo in posa con grazia, esaltato nei suoi ineguagliabili colori da professionisti della fotografia.
Si fa presto, però, a dire spaghetto al pomodoro: cosa si intende? Spaghetti con la salsa di pomodoro, passata, o con i pomodorini saltati brevemente in padella? E, in quest’ultimo caso, con la pelle o senza? Con l’aglio o con la cipolla? E l’aglio, tritato o intero? Considerato fondamentale il basilico (che però è stato preceduto dall’origano, nella tradizione), ce lo mettiamo un po’ di peperoncino?
Per la salsa, i pomodori ideali sono I San Marzano, naturalmente quelli veri, e non qualsiasi pomodoro allungato vagamente a pera, e i Roma. Negli ultimi anni imperversano i tondi lisci detti ramati, quelli a grappolo, ma quanto a gusto e profumo non possono competere. Inutile dire che è fondamentale che siano nella stagione giusta: in piena estate. Nel resto dell’anno, meglio ricorrere a prodotti conservati come pelati e passate, purché di qualità sicura.
Per un sughetto con i pomodorini, il massimo sono i pomodorini del piennolo del Vesuvio o i celeberrimi Pachino, ma che siano tali, e non dei ciliegini comuni spacciati per Pachino. Buoni anche i datterini. In ogni caso, la buccia del pomodoro in questo caso va rigorosamente lasciata e la cottura dev’essere vivace e brevissima per conservare gusto, profumo e proprietà. Fuori stagione si trovano alcuni ottimi pomodorini in conserva. Meglio le conserve con i pomodorini interi in sola acqua e sale. Ma dei pomodori e delle loro varietà avremo occasione di parlare in futuro.
E poi c’è la conserva. Il concentrato, che in Sicilia prende il nome di strattu. E’ un capolavoro di intensità, ottenuto da pomodori a piena maturazione, tagliati a metà, salati e messi ad asciugare al sole; poi passati al setaccio. La polpa passata vene di nuovo messa al sole per diversi giorni, e mescolata di tanto in tanto perché asciughi uniformemente, e infine, quando è densa e scura, conservata in vasi preferibilmente di terracotta, coperta con un filo d’olio. Alcune ricette prevedono un passaggio in pentola, ma quelle puriste pretendono che ad agire sia solo il calore del sole.
Che si parli di pomodori freschi, di concentrato, di pelati, di pomodorini interi, da questo rosso tesoro nascono le mille varianti di pasta al sugo della penisola. Pasta fresca o secca, all’uovo o di semola; dai papicci abruzzesi (di farina e acqua), conditi semplicemente con passato di pomodoro bollito con peperoncino e serviti con pecorino grattugiato, ai manfricoli umbri, che si accompagnano a un sugo preparato con aglio e scalogno, e un po’ di zucchero.
Alle versioni con i pomodori secchi, tra cui quella calabrese, rinforzata ovviamente col peperoncino, o ancora a una salsa di pomodoro trentina in cui il basilico cede il posto a salvia, alloro e rosmarino. In Puglia spesso il binomio pasta – pomodoro diventa un trinomio, con l’inserimento del cacioricotta, e in Toscana se chiedete il “sugo” avrete quello che altrove si chiama ragù, con pomodoro ma anche carne. Che è tutto un altro delizioso capitolo, di lunghe cotture, di giornate invernali e di pranzi domenicali. Non dimentichiamo la pasta con i pomodori infornati, conosciuta un po’ ovunque in varie versioni: i pomodori, piccoli, tagliati a metà, vengono diposti in una teglia, conditi con olio, erbe aromatiche, pangrattato, aglio, talvolta formaggio e cotti in forno. Ci si condisce la pasta precedentemente lessata, ma c’è anche una versione che prevede tutto insieme in teglia, a strati: pomodori conditi, pasta cruda, un po’ d’acqua e via in forno.
Quale che sia la vostra pasta al pomodoro, stavolta prepariamoci uno spaghetto al pomodoro con la salsa della famiglia Iaccarino. La ricetta è tratta da “Pasta. Sapori e profumi dal sud”, di Alba Pezone, edizioni Gambero Rosso.
Salsa di pomodoro di Livia e Alfonso Iaccarino
Per 50 cl di salsa:
250 g di pelati San Marzano DOP
400 g di passata di pomodoro San Marzano
1 spicchio d’aglio
olio extravergine d’oliva
sale
In una padella, rosolate uno spicchio d’aglio in camicia in 5 cucchiai d’olio d’oliva, fino a doratura. Eliminate l’aglio, aggiungete la passata di pomodoro e fate cuocere per cinque minuti a fuoco basso senza coprire. Aggiungete i pomodori tagliati a dadini e fate cuocere per altri 5 minuti a fuoco basso. Salate e togliete dal fuoco.