Un evento enorme come Identità Golose non può essere trattato nella sua globalità. Ogni visione non può che essere parziale, ogni chiave di lettura non può che essere personale, ogni strada non può che essere percorsa con passo diverso. Una piccola e necessaria premessa all’interpretazione di ciò che abbiamo visto – e forse cercato – nei tre giorni del congresso di Milano.
Negli ultimi anni abbiamo assistito con sgomento alla spettacolarizzazione del cucinare : cuochi che calcano le tavole del palcoscenico come soubrettes consumate, schiere di adoratori che farebbero follie per un osso di pollo firmato da quello di volta in volta più in vista, testate che si contendono interviste a suon di copertine. Cuochi tanto patinati e glamour da essere diventati personaggi e non più persone reali.
Un tale fenomeno non poteva reggere ancora a lungo, da più parti si reclamava a gran voce il ritorno all’antico, alla cucina fatica- e- sudore o addirittura alla cucina come cura, come atto d’amore verso il prossimo.
E invece no. Ancora una volta questo pazzo mondo ha saputo stupirci ed abbiamo assistito in diretta alla nascita del cuoco – filosofo. Filosofie orientali, matematica, arte. Tutto fa brodo. Stiamo scherzando, un po’, e un po’ facciamo sul serio. Davvero in molti interventi abbiamo letto un tentativo – a volte genuino e a volte meno – di dare un significato filosofico alla propria cucina, di nobilitare un gesto antico che non ha alcun bisogno di essere nobilitato perchè è uno dei fondamenti della vita stessa.
L’apertura del congresso è toccata a Pietro Leemann, il cuoco vegetariano più famoso d’Italia. Riallacciandosi agli studi di Masaru Emoto sulla risposta dell’acqua alle vibrazioni, ha officiato (è proprio il caso di usare questo termine) una cerimonia di purificazione di se stesso prima e dell’acqua poi. Il pubblico è stato invitato ad assaggiare l’acqua “normale” e quella “purificata” con la recita dei mantra e ad apprezzare le eventuali differenze. A Leemann interessava far passare il concetto che un piatto preparato con amore è differente da uno preparato per dovere, che l’energia positiva si trasmette ovunque. Lodevoli e condivisibili concetti (già trattati con intento romanzesco dalla scrittrice americana Aimee Bender nel suo librino “L’inconfondibile tristezza della torta al limone”) che, espressi in apertura di congresso, hanno lasciato la platea calcisticamente divisa tra sostenitori e detrattori.
La mistica prima del caffè è difficile da mandare giù.
Bisogna però ammettere che Leemann è persona seria e coerente, che mai e poi mai preparerebbe una lezione – spettacolo solo per épater le bourgeois. E’ così: seriamente trasgressivo, se ci si passa il termine. Si ama o si odia.
La sana intelligenza, tema principale di Identità Golose 2015, è il filo conduttore dell’intervento del mostro sacro Alain Ducasse – secondo relatore – che ha deciso di non servire più carne (non di diventare vegetariano – intendiamoci bene) nel suo ristorante al Plaza Athénée di Parigi. Forse dovranno ancora decidere se seguire la moda o l’etica, se continuare a proporre gli ortaggi di piccoli produttori locali insieme alla quinoa andina, se considerare il tartufo nero un “piatto modesto”. Forse si tratta solo di intendersi sui termini : cosa è naturale e cosa non lo è? L’impressione che ne abbiamo tratto però, è quella di un’etichetta appiccicata a bella posta più che una scelta filosofica: la naturalité tanto di moda appare davvero fuori contesto. Ci resta però il ricordo di un meraviglioso mortaio suribachi giapponese maneggiato con maestria da Romain Meder, executive chef del Plaza Athénée.
Cuoca (finalmente una donna!) di confine, sia intellettualmente che da un punto di vista anagrafico, è la triestina Antonia Klugmann, presentata da Laura Lazzaroni. Dalla laguna veneta si è spostata da pochissimo in un luogo che davvero guarda il confine: a Dolegna del Collio, in Friuli ma con un occhio alla Slovenia. Empatia ed umiltà sono i principi che guidano Antonia (persona di intelligenza ed abilità comunicativa non comuni) e che la aiutano a preservare l’essenza degli alimenti che propone ai suoi clienti. Forse in questo caso la filosofia non è semplicemente una posa ma fa parte del suo modo di essere. Almeno così ci è parso di cogliere ascoltando il suo intervento.
Un clima diverso si respirava nella sezione Identità Naturali. Meno speculazione e più prassi potrebbe essere il motto dei tanti che si sono alternati sul palco. La rivoluzionaria Daniela Cicioni (come l’ha definita Lisa Casali che ha, come di consueto, condotto la giornata) continua a sperimentare tecniche esotiche per trattare ingredienti locali. Allora l’indonesiano tempeh non sarà solo di soia ma di legumi ai quali diamo del tu: piselli e ceci, oppure di semi oleosi come mandorle e nocciole.
Il giovane cuoco catalano Sergio Bastard propone invece una cucina che nasce dall’osservazione della natura che circonda il suo ristorante a Santander. Forse lo si potrebbe definire un cuoco impressionista, un artista che ha sostituito gli ortaggi al pennello, ombreggiando i suoi piatti con le erbe spontanee.
In questa sala abbiamo apprezzato cucine tutt’altro che improvvisate, per niente lasciate al caso ma anche poco o nulla spettacolarizzate. Persone che sperimentano, creano, magari sbagliano sporcandosi le mani dietro ad un fornello. Cucinare in fondo è proprio questo.