Il Giappone e la sua cultura stanno vivendo un momento di gloria e di notorietà , complice probabilmente la grande e meritoria opera di diffusione voluta e portata avanti dalle sue Prefetture nel corso di Expo, complice anche la curiosità che ha sempre suscitato un paese dalle tradizioni millenarie e dagli usi bizzarri quanto affascinanti.
Non poteva la cucina sottrarsi a quest’ondata filonipponica: se l’invasione del sushi è avvenuta ormai tempo fa, se sono sempre più numerosi i posti in cui assaporare ramen e zuppe, la carne era rimasta sinora un prodotto di nicchia.
Il manzo di kobe è l’espressione più nota del bovino giapponese, il wagyu per l’appunto. È l’espressione più nota ma non la sola: sono numerose le razze bovine originarie del Giappone caratterizzate da una carne dalla marezzatura molto pronunciata e particolarmente ricca di grassi insaturi, nonché da un costo molto elevato. Hida, Mishima e Sanda solo alcune tra queste.
Nonostante l’attuale notorietà e diffusione, i bovini domestici in realtà furono importati in Giappone per uso esclusivamente agricolo, erano impiegati per lavorare la terra ed almeno inizialmente era fatto divieto di mangiarne la carne. Gli allevamenti per uso alimentare sono una novità del XIX secolo, anche se oggi c’è una forte politica protezionistica nei confronti di una carne che è diventata una tipicità ed un patrimonio da tutelare: è proibito incrociare le razze giapponesi con quelle provenienti dall’estero e il Giappone ha bloccato l’esportazione degli embrioni.
I grandi pregi del wagyu, ossia il basso contenuto di colesterolo e la grande quantità di grassi intramuscolari (circa il 10% ) che in cottura sciogliendosi rendono la carne estremamente morbida e saporita, hanno spinto molti paesi ad introdurne l’allevamento.
L’Australia vanta la più grande associazione di produttori Wagyu al di fuori dei confini nipponici e negli Stati Uniti esiste un kobe in stile americano nato dall’incrocio di angus e kobe.
In Italia, in Lombardia, esiste un progetto nato nel 2007 il cui intento è migliorare ed implementare l’allevamento bovino di carne italiana, perché nonostante l’innegabile pregio di molte delle carni italiane, basti pensare alla marchigiana, alla chianina o alla fassona, continuiamo ad importare ed il 90% dei vitelli arriva dall’estero. Il progetto voluto da Ernesto Beretta, ricercatore dell’Università degli studi di Milano e finanziato da Camera di Commercio e Unioncamere Milano, ha ad oggetto la sperimentazione di carni bovine di qualità, il wagyu in primis.
Il mese scorso lo studio si è concluso e sono stati macellati i primi due tori dei 18 capi nati da embrioni provenienti dall’Australia. I capi di wagyu lombardo sono cresciuti a Villa Cortese, nell’allevamento della Fondazione Ferrazzi e Cova, nata nel 1938 per favorire i figli degli agricoltori della provincia di Milano.
A questo punto non ci resta che attendere un’invasione di wagyu lombardo sulle nostre tavole, con la speranza e l’auspicio che quello nostrano costi meno dei 1000 € al kg che può raggiungere la carne di Kobe.