Mettiamo subito le mani avanti, come si suol dire: la storia della sfogliatella è controversa, in buona parte avvolta nel mito e costellata di aneddoti fantasiosi.
Più che di storia vera e propria, sarebbe meglio parlare di ipotesi, e sono le ipotesi, appunto, che vi racconterò. Partendo, stranamente, dalla fine.
Pintauro: chi era costui? Il fatto che ogni abitante della Campania felix lo sappia bene non vuol dire necessariamente che il personaggio sia universalmente noto. La bottega di Pintauro in Via Toledo a Napoli è stata per decenni il regno indiscusso delle sfogliatelle. Perciò parliamo di un pasticciere, talmente celebre da aver attirato malevolenze e invidie. E infatti Pintauro è protagonista di almeno due detti napoletani: Se fruscia Pintauro, d’e sfugliatelle jute ‘acìto e l’altro, che ci interessa di più: Tene ‘a folla Pintauro.
Il primo si usa per dileggiare una persona che si vanta a sproposito, e letteralmente significa: Pintauro si vanta delle sue sfogliatelle inacidite; il secondo invece ricorre, talvolta per fare dell’ironia, quando un esercizio commerciale è pieno come un uovo o persino quando qualcuno è molto corteggiato. Il significato letterale qui è chiaro: Pintauro è affollatissimo.
Infatti lo era. Sempre.
Perché un tempo dire sfogliatella equivaleva a dire Pintauro. A Pasquale Pintauro, taverniere ai primi dell’800, si attribuisce non la creazione del celeberrimo dolce napoletano, ma la sua rielaborazione e la sua commercializzazione per il grande pubblico: fu lui che, sopraffatto dal successo delle sfogliatelle che aveva cominciato a vendere nella sua osteria, trasformò il locale in pasticceria dedita a produrle a getto continuo per una platea cittadina che sembrava non esserne mai sazia.
Ma è qui che nasce il busillis: da dove proveniva quel dolce che il sagace oste fece suo e portò alla fama? Chi fu a idearlo, e come Pintauro si procurò la ricetta?
Perché, a quanto si dice, questa era segretissima, quasi certamente rinchiusa tra le mura protettive di un convento di clausura. È là, lo sappiamo bene, che tanti dolci hanno visto la luce, lavorati dalle sapienti mani delle monache e destinati ad omaggiare ospiti di riguardo o prendere per la gola possibili benefattori.
Ora la faccenda si complica, perché di conventi, in questa storia, ce ne sono due – e qualcuno dice anche di più – che si contendono, nei racconti, la medaglia al valore dolciario: quello napoletano della Santa Croce di Lucca e quello dedicato a Santa Rosa da Lima, in Costiera Amalfitana.
Una leggenda vuole che tre giovani figlie di Nicola Giudice, principe di Cellammare e duca di Giovinazzo, fossero state monacate, non si sa se per amore o per forza, e fossero entrate in quel convento della Croce di Lucca del quale il padre era patrono e sostenitore. Le fanciulle, appresa la ricetta della sfogliatella nelle cucine del monastero, la avrebbero poi portata fuori durante una visita alla famiglia, insegnandola al cuoco di palazzo e facendo uscire dai gangheri la priora; ma il danno (o il beneficio per l’umanità) era fatto e, in qualche modo, la ricetta, caduta nelle mani di Pintauro, se ne andò libera per il mondo.
Altri vogliono che fosse proprio Pintauro ad avere una zia monaca alla Santa Croce di Lucca, e che questa gli abbia confidato la ricetta prima di morire, ponendo le basi della sua fortuna.
Ma c’è sempre il convento di Conca dei Marini, quello dedicato a Santa Rosa da Lima, ad avanzare i propri diritti, e con buone argomentazioni, giacché è proprio Santa Rosa che si chiama una versione ricca della sfogliatella che vede la presenza di un bel ciuffo di crema pasticciera e di qualche succosa amarena a sormontare le striscioline di sfoglia che si rincorrono sul bel dolce a forma di conchiglia. Sarebbero state le suore di Conca a inventarlo, secondo la tradizione per utilizzare della semola cotta nel latte e avanzata, decidendo di farne un ripieno e realizzando allo scopo una elaborata sfoglia in cui racchiuderla. Una vera intuizione a cui il tocco finale di crema e amarena avrebbe conferito il crisma della genialità.
Poi, chissà per quali vie, la ricetta arrivò a Pintauro, che la semplificò, tenendone il guscio di sfoglia e il ripieno di semola e ricotta profumato; qualcuno vuole che sia stato un pasticciere sorrentino a far entrare la propria figlia in convento pur di accaparrarsi il prezioso segreto di pasticceria, mentre altri favoleggiano di una impudica storia d’amore tra una suorina e un giovane dolciere.
A rovinar la festa a tutti i conventi campani, spuntano però precedenti ben più antichi. E qui bisogna tirare in ballo Bartolomeo Scappi, cuoco di grido nel ‘500 tanto da aver servito papi e cardinali, nonché autore di uno dei più vasti corpus di ricette mai redatti in territorio italico: l’Opera dell’arte del cucinare, del 1570. È lui, infatti, nel capitolo XLIIII del quinto libro, a proporre una ricetta di orecchine, et sfogliatelle piene di bianco magnare; dopo aver preparato una pasta soda con fior di farina impastato con rossi d’ova, un poco di strutto, sale, zuccaro e acqua rosa, e il resto acqua tiepida, e averne fatto un rotolo, così prosegue:
“Fatto che sarà il pastone sfogliato, nel modo che si è fatto il sopradetto, taglisi il ruotolo per traverso in manco grossezza di quello del pasticcio, et con destrezza ongasi la mano di strutto liquefatto, et slarghi esso ruotolo, et facciasi a foggia d’una fucaccina, advertendo fare in modo che le sfogliature non si cavalchino l’una con l’altra, et nel mezzo d’essa fucaccina nella parte men sfogliata, pongasi un pezzo di biancomagnare, mescolato con ricotta fresca, et chiare d’ova fresche battute, et pignoli ammogliati; bagnisi il sfoglio con un poco di chiara d’ovo, perche amendue le parti si congiunghino insieme, et faccisi l’orecchina ovata a foggia d’offelle, et ungasi di sopra con strutto liquefatto, et friggasi nel strutto non troppo caldo, et nel vaso ce ne sia assai, perche essa orecchina non vada al fondo, et non volendosi friggere, cuocasi al forno, in la tortiera, o senza su la carta, et servasi calda con zuccaro sopra.“
Il procedimento, c’è poco da fare, è praticamente quello delle sfogliatelle che conosciamo oggi; il ripieno invece impiega, oltre alla ricotta, quel biancomangiare che attualmente è dolce tipico di alcune regioni d’Italia (la Sicilia, soprattutto) ma che in forma diversa è tra le più antiche preparazioni documentate nella cucina italiana. Probabilmente di origine araba, certamente presente nel banchetto offerto da Matilde di Canossa al papa Gregorio VII e all’imperatore Enrico IV per riconciliarli, era costituita perlopiù da un composto a base di latte di mandorle o latte animale, petto di pollo o polpa di pesce, zucchero, talvolta farina di riso.
E ritroviamo delle “sfogliatelle bonissime” nell’Epulario di Giovanni del Turco, fiorentino, redatto nei primi anni del ‘600, che si ispira dichiaratamente a Scappi e da lui mutua diverse ricette; ancora una volta la sfoglia si farcisce di biancomangiare o, in alternativa, di mandorle peste, pinochi interi et uve passere e zuchero et un ovo chi ce lo vuole.
Fin qui i testi, uniche certezze in una ridda di supposizioni. Ma si afferma, oggi, che le origini della sfogliatella sono remotissime, e affondano nelle pratiche votive in onore di Cibele, figura di dea assimilabile alle cosiddette Grandi Madri, destinate a favorire la fertilità: nel napoletano, a quanto sembra, durante i riti comparivano dei dolci che nella forma a triangolo o conchiglia volevano richiamare l’apparato riproduttivo femminile.
Sarebbero quelli i progenitori della sfogliatella, e le monache, di qualunque convento fossero, avrebbero riproposto un simbolo dai chiari riferimenti erotici, in totale inconsapevolezza.
N.d.R.: Questa piccola, lacunosa ricerca è stata ispirata dal professor Fabrizio Mangoni, che nel corso di una serata speciale presso ‘O sfizio d’a Notizia di Enzo Coccia, a Napoli, ha tracciato una sintetica storia della sfogliatella, mentre tre valenti pasticcieri (Ciro Scarpato, Salvatore Capparelli e Vincenzo Mennella) proponevano altrettante storiche versioni del dolce partenopeo: sfogliatella seicentesca, sfogliatella Santa Rosa e sfogliatella classica. Tutte le foto sono state scattate in quella occasione da chi scrive.
Splendido racconto!
Ottimo 🙂