Castagne del Casentino, una ricca povertà

Che tu mùgoli o che tu ‘un mùgoli, pan di legno e vin di nuvoli”. Così dicevano i contadini del Casentino, la vallata nel cuore della Toscana caratterizzata da paesaggi straordinari come il monte della Verna e il parco nazionale delle Foreste Casentinesi e di Campigna.

Zone stupende, ma a volte difficili per chi, da contadino, ci abitava. Terreni spesso poco produttivi, dove la gente, a comprova che il detto “contadino scarpe grosse e cervello fino” è vero, si ingegnava a raccogliere ciò che la natura, anche se con sacrificio, offriva. E allora vai di funghi e castagne, a cui talvolta si aggiungevano le patate, magari di elevato valore come quelle della varietà Rossa di Cetica.

Nel mondo contadino di un tempo la castagna, o il marrone, rivestiva un ruolo spesso determinante per l’alimentazione autunnale della famiglia. In molte zone il grano non cresceva (salvo alcune varietà minori, adesso ricercate come grani pregiati) e ci si aiutava tanto con le castagne, che fossero pistolesi, perelle, mondistollo o raggiolane.

Castagne bosco-autunno

E se in un’altra vallata della provincia, la Valtiberina, si diceva che “A Caprese ci sono quattro vivande: brice, ballotte, baldino e castagne” (castagne arrosto, castagne bollite, dolce a base di castagne e castagne, appunto), non è che in Casentino si stesse meglio. Anche se, a dire il vero, loro cuocevano le castagne a volte insieme alle patate nel calderotto (una sorta di paiolo in rame che tenevano appeso ad una catena sul focolare) e, con la farina, ricavavano una sorta di polenta (polenta dolce, per differenziarla da quella di granturco) che servivano con ingredienti salati quali il sambudello (sorta di insaccato ricavato con le parti povere del maiale e finocchio selvatico) al pomodoro o il baccalà in umido (ma questo più dalle parti di Faltona, distante qualche decina di chilometri in linea d’aria), oppure più dolci quali la ricotta spesso prodotta in loco con il siero del latte delle pecore avanzato dal formaggio.

La farina di castagne (non di marroni, assurda moda contemporanea, che utilizza un ingrediente pregiato ma non propriamente adatto, per realizzare una farina di gusto delicato) era un tesoro per la famiglia contadina delle zone dell’alto Casentino. Non era un caso che fosse contenuta in cassoni di legno, pressata all’inverosimile, in modo da ottenere una sorta di mattone prezioso che non fosse attaccabile dagli insetti. E di volta in volta veniva staccato il pezzo necessario per la famiglia, per fare il castagnaccio o la polenta dolce, appunto.

Castagne-cesto

Il tempo è passato, tanto ne è passato, ma in Casentino la farina si fa ancora come una volta. Con rituali antichi che affascinano, che ti riportano ad un mondo sempre più a rischio di oblio.

Come ogni rito che si rispetti ha inizio nel bosco. Non con la luna piena, ma con i prati pieni di foglie. Con i proprietari che puliscono sotto ai castagni (di varietà raggiolana, pistolese, mondistollo, tigolese, perella) in un’operazione detta rimunitura, in modo che le peglie (i ricci della castagne) che cadono in terra e sono cercate (nella ricercatura) siano più facilmente raggruppabili, senza elementi estranei, nel pegliaio. Al termine della giornata lavorativa si trasportano le castagne ai seccatoi, costruzioni in pietra su due piani. Il piano terreno, con porta e finestra, ospita il fuoco, mentre il primo piano contiene le castagne che vi vengono gettate attraverso una finestrella. Il piano di sotto è diviso da quello di sopra per mezzo di assi di castagno, le scandole, della larghezza di circa dieci centimetri e distanti tra loro un paio di centimetri. Tale distanza permette al calore del fuoco (ottenuto bruciando le bucce delle castagne dell’anno precedente) di giungere alle castagne ma al tempo stesso impedisce loro di cadere. Quando il pianale delle scandole è coperto (accecato) da uno spesso strato di castagne, si accende il fuoco al piano terreno.

All’inizio dalle castagne, per via del caldo e del fumo, esce l’umidità e le bucce si rivestono di un sottile strato acquoso. Quando appaiono asciutte, con pale in legno si provvede a rigirarle (rivoltatura) muovendo le castagne dello strato superiore verso le scandole. Una volta che le castagne sono secche (ci vogliono più o meno tre settimane, il tempo varia con l’umidità delle castagne) si passa alla pestatura, cioè si liberano dal guscio e si selezionano scartando quelle marce.

Adesso la pestatura si fa con mezzi moderni ma un tempo le castagne venivano messe in una sorta di catino in legno e pestate con le scarpe chiodate.

Castagne catino

Nel caso della rara farina di castagne a doppia infornata di Ortignano Raggiolo, le castagne sgusciate vengono poste in forni riscaldati a legna in modo che l’umidità residua diminuisca ulteriormente (fino circa al 9-10%), poi vagliate, ovvero poste su setacci (vagli) di rete metallica a maglie strette, smossi per eliminare eventuali residui di buccia rimasti.

Castagne vagliatura A questo punto i frutti sono portati al mulino dove vengono trasformati in farina.

Catagne farina ortignano

Ma in Casentino anche il mulino è particolare.
Ce ne sono molti di grande qualità, ma su tutti spicca, per anzianità, il mulino Grifoni di Cetica, ancora azionato dalle acque del torrente Solano. Si tratta di un mulino di proprietà pubblica già operativo nel XIV secolo, venduto poi nel 1696 alla famiglia Grifoni. Possiede macine a pietra che realizzano una farina profumatissima il cui odore pervade la stanza e rassicura gli animi.

Castagne mulino grifoni

La farina di castagne. Una farina dolce. Per il palato e per l’anima.

Castagne mulino-castsgne

Ah, il detto all’inizio sta ad indicare la povertà dell’alimentazione locale: “Che tu ti lamenti o che tu non ti lamenti c’è solo pane di legno (di farina di castagne) e vino di nuvole (acqua)”.
E la farina di castagne è naturalmente priva di glutine (benché per i celiaci deve essere certificata).

 

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Rossanina Del Santo

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