Giovedì 19 gennaio a Eataly Lingotto di Torino c’è stata una cena molto speciale, pensata come un gioco. Ma un gioco serio, in cui ci si diverte e si mangia benissimo. Pare che ai commensali sia molto piaciuta, tanto che si ripeterà a Milano in primavera. La fervida fantasia dietro all’evento è quella di Marlena Buscemi che ce lo racconta e debutta su Gastronomia Mediterranea.
In principio era una cena in cui avrei voluto dimostrare che non esiste nessuna differenza palpabile tra la cucina di uno chef donna e quella di uno chef uomo, senza incappare in nessuno dei classici luoghi comuni – il cuore, la sensibilità, i colori, la cura e altri banali bla bla bla– che di solito li accompagnano.
Ero convinta che tale differenza, tanto discussa, non fosse così evidente non perché impercettibile quanto perché inesistente: i cucinieri più talentuosi sono coloro che sanno unire alla tecnica e alla creatività una certa capacità di comunicare se stessi, che nulla ha a che vedere con il genere.
Per questo non avrebbe potuto essere una cena convenzionale, dove il commensale arriva informato su cosa mangerà, sul chi e – se mastica anche un po’ tecniche di cucina oltre che di cibo – su come lo preparerà.
Era quindi necessario per una volta togliere e non aggiungere informazioni.
I nomi degli chef, tanto per iniziare. E come conseguenza la storia e lo stile che si portano dietro.
Se il piatto rappresenta davvero una comunicazione non verbale, è davvero così leggibile come si crede?
Privati di tutte le informazioni di servizio a cui siamo abituati quando ci sediamo a tavola, cosa è possibile rilevare soltanto con l’uso dei nostri sensi?
Per rispondere non potevo che dare spazio a uno dei partecipanti, per evitare che il mio punto di vista, viziato da tutte le informazioni della progettazione, mi rendesse faziosa nelle considerazioni. E la prima regola della cena ludica è, appunto, non prendersi troppo sul serio.
Le impressioni di Bruno:
Intanto una premessa: ci sono capitato all’ultimo momento e quasi per caso, invitato da un amico. Anzi, facciamone due di premesse: non sono un gourmet e non mi sono mai considerato tale. Sono un goloso curioso, quello sì. E qui la curiosità è solleticata a priori. Hai per le mani un bellissimo menù ma non hai idea di chi prepari i vari piatti. Quindi curiosità a manetta e tanta voglia di iniziare.
I piatti arrivano, tutti figli di ignoto padre. E li apprezzi perfino di più e dedichi loro più attenzione del solito perché cerchi di capirli, cerchi di afferrare sfumature e strutture, profumi e sensazioni, motivazioni dell’abbinamento dei vari ingredienti e risultato finale. Io, almeno, ho affrontato così la cena, senza sforzarmi di capire che mano ci fosse dietro a ciascun piatto ma cercando di capire il piatto e metterlo il relazione con gli altri. Di fatto mi sono costruito una sorta di partitura sinfonica, mettendo qua gli ottoni e là gli archi, sentendomi quasi io in prima persona il direttore d’orchestra.
Di ogni portata cercavo di individuare le sensazioni (olfattive, gustative ma anche metafisiche) che mi suscitava ed il bello è che ho capito come di fatto fossi alle prese con un crescendo polifonico, con una gamma di sensazioni sempre diverse e sempre emozionanti. Non ho cercato di indovinare i cuochi, anche se al mio tavolo – di addetti ai lavori ben più seri di me- circolavano voci e venivano asserite certezze, perché mi sembrava alla fine irrilevante, ma cercavo di indovinare quali piatti fossero stati fatti dalla stessa mano: questo sì lo trovavo stimolante!
Non vi dirò se e quanti ne abbia azzeccati, perché è superfluo. Ma il gioco mi ha preso e coinvolto, mi ha stimolato a cercare di più e a prestare più attenzione.
Quando alla fine i cuochi misteriosi sono stati presentati ho scoperto che tre li avevo sempre considerati come cuochi del cuore, ma i due che non conoscevo sono entrati immediatamente nella cerchia (ho un cuore grande come uno stadio…) visto che avevano proposto piatti che mi avevano veramente emozionato.
Insomma, serata educativa, formativa ed assolutamente divertente. Mi prenoto già per il prossimo esperimento, a meno che non sia a Katmandù… anche se sarebbe una buona scusa per andare finalmente in Nepal.
Katmandù è in Nepal, vero?! Oltre che gourmet mai stato troppo esperto nemmeno in geografia…”
Le regole del gioco sono poche e sono semplici: dopo aver mangiato ciascuna portata e in attesa della prossima, rispondi a 4 o 5 domande, tra queste non vi è mai chiesto di indovinare il nome dello chef: se qualcuno lo fa è per pura e azzardata iniziativa personale. L’aiuto da casa o di Google non è vietato ma è caldamente scoraggiato perché, come in tutti i giochi, il baro è mal tollerato.
Gli Chef, che accettano di far parte della rosa degli ignoti, giocano a loro volta: qualcuno calca la mano sui tratti distintivi della propria cucina, altri sparigliano le carte e altri sperimentano piatti che magari hanno in testa da tempo, ma che non hanno osato mettere in carta. Può capitare che qualcuno bleffi – simpaticamente- per provocare reazioni diverse dal loro “solito”.
E’ un gioco di fondo, e come tale, solletica tutte le corde che appartengono al contesto ludico: piacere, divertimento, scoperta, strategia e anche la voglia di ripeterlo.
Prossima tappa Milano, in primavera: dove e quando sono in definizione, voi, nel frattempo, allenate le papille!
Sensazionale, non solo l’idea della parità di genere e della dimostrazione che solo l’individuo neutro in quanto tale faccia la differenza come anche avvicinare i piatti ai toni musicali.
D’altra parte cucina e musica vivono di sapori, retrogusti, suoni ed armonie, tutto accomunato dal piacere e dal diletto.
Come dire che in una polpettina può celarsi un consapevolissimo meraviglioso universo.