Ovverosia, cronaca di una toccata e fuga ad Identità Golose 2017.
La più grande manifestazione italiana dedicata alla ristorazione professionale, alla ricerca e tecnologia in cucina ha chiuso i battenti lunedì scorso al Mi.Co di Milano, dopo tre intensi giorni di dibattito sul futuro di chef, bartender e maitre. Il tema dell’anno era il viaggio, la libertà e la volontà di capire gli altri. Già, perché quando viaggiano le idee e i prodotti, anche il gusto si trasforma.
Come si trasformerà allora la cucina italiana? Quali potrebbero essere i fil rouge di una nuova generazione di chef? Ascoltando gli interventi di alcuni relatori domenica e leggendo alcuni spunti ne abbiamo individuati cinque.
La magia del gel e degli amidi
Lo studio degli amidi è la nuova sferificazione. L’abruzzese Niko Romito li ha utilizzati, come pellicola mescolati all’olio extravergine d’oliva, nel suo protocollo “Intelligenza nutrizionale” mirato a migliorare la ristorazione per comunità, per evitare il calo peso della carne e del pesce.
Noi italiani si sa, di amido ne sappiamo, basti pensare alla pasta. Come ha insegnato Matteo Metullio cuoco de La Siriola di San Cassiano (BZ), uno spaghettino da servire freddo va stracotto e raffreddato in acqua e ghiaccio per risultare al dente.
Pregelatinizzare gli amidi è molto in voga anche negli impasti della pizza. Persino il gel per antonomasia, la gelatina, tanto bistrattata negli aspic anni ‘80 sta tornando alla ribalta.
Matteo Baronetto Del Cambio di Torino ha presentato nella sezione Identità di pasta due spaghetti al sugo di arrosto piccanti, serviti in gelatina.
Lo chef francese Paul Pairet, chef di Ultraviolet a Shangai, ha cotto un filetto di merluzzo sottovuoto a bassa temperatura alla sua maniera. Ovvero in una gelatina di brodo aromatizzata con arancio e aneto. Tagliando la gelatina il pesce bianco, per magia, ne è emerso perfettamente integro (vedi foto di apertura).
Fermentato o disidratato, ogni cosa ha il suo tempo
Il mood lanciato dalla nuova cucina scandinava e da René Redzepi, al quale devono essere fischiate più volte le orecchie, è stato accolto e rilanciato dalla platea di chef italiani. In primis, uno dei cinque italiani al Noma, il padovano Riccardo Canella, che ha condito un calamaro con un garum di interiora del cefalopode stesso e un sale di alga. Ha preferito all’acidità delle formiche una zest di fresco e italico limone, ma ha spiegato come per fare un piatto ci possano volere, in quest’ottica, anche 3 mesi tra studio e preparazione dei singoli ingredienti.
Cristina Bowerman di Glass Hostaria a Roma, ha proposto un mole messicano fatto con la coda alla vaccinara, invecchiato fino ad un mese e mezzo. Si presenta come una sorta di sugo sul quale fare “scarpetta” con un pane di mais. Sarà messo in carta previa opportuna analisi batteriologica.
Questi esempi non bastano? Anche il più rigoroso Norbert Niederkofler del St. Hubertus a San Cassiano in Badia (BZ) ha proposto un piatto con l’orzo fermentato.
Stare in cucina (e meno sotto i riflettori)
Tanti giovani chef a differenza dei grandi del passato, vogliono salutare i commensali, vogliono assicurare a chi vuole vivere un’esperienza gastronomica che ci sono loro dietro le quinte. Altrimenti meglio chiudere qualche giorno, senza drammi. Emblematica, in questo senso, la scelta di Marta in cucina a Reggio Emilia: un nome di un ristorante, un programma.
Pensare globale, agire locale
Frase dei Bros, tre fratelli che hanno creato il primo ristorante che propone piatti di levatura internazionale a Lecce, hanno studiato in tutto il mondo dai più grandi per approdare, senza rimpianti, a casa e proporre, ad esempio, un sanguinaccio. Giurano di fare quello che gli va come se fossero a New York.
C’è stato, però, anche un esempio inverso. Chi in Italia non ci ha mai lavorato eppure fa i tajarin piemontesi con successo: Jun Lee in Corea Sud ha in carta una sessantina di piatti italiani, sempre più richiesti.
Distanza e lontananza sono stati anche al centro dell’intervento del già citato Metullio. La sua filosofia? Non estremizzare il chilometro zero perché la qualità non ha limiti territoriali. Per fare gli spaghettini freddi con pesto di basilico calabrese e scampi crudi, ci possono volere 4925 km, ma le uova possono essere quelle delle galline del cortile sotto casa.
Interessante anche la struttura creata da Christian Puglisi e Jonathan Tam, con una fattoria, dove si produce – dicono i ben informati – anche una mozzarella da far invidia a tanti caseifici italiani ad uso del loro Relae in Danimarca.
Far vivere la tradizione, esaltare la cultura e la biodiversità italiana
Il vero asso nella manica dell’Italia è la cultura, stando a Massimo Bottura, primo italiano a salire sul gradino più alto del podio internazionale del The World’s best restaurant. Se prima la moda in cucina parlava francese, poi spagnolo, ora le lingue nordiche dell’Europa, arriverà anche per l’Italia un momento di gloria?
Cercare di raccontare la nostra storia in maniera nuova è una sfida. Ci sta provando platealmente Alajmo, che passa dal ristorante tre stelle all’apertura di una pizzeria con impasti cotti al vapore. Ci sta provando anche Salvatore Bianco del Comandante di Napoli. Nel piatto presentato al Convivium Lab ha utilizzato l’originario pomodoro giallo del Vesuvio, molluschi sconosciuti ai più, come occhi di Santa Lucia, sfere, limoni di mare e ha cotto la pasta tra gli elementi del fondale del mare stesso.
Perché a noi italiani la creatività non manca, forse solo la capacità di creare una scuola, un seguito, un lascito per giovani, chissà che a forza di viaggiare, discutere e incontrarsi non sia la volta buona. Così la moda italiana non sarebbe più solo di stoffa, ma anche di gusto e sostanza.
Foto apertura: Brambilla-Serrani