Nel mondo contadino amicizia, condivisione e buon cibo sono sempre andati di pari passo. In quello aretino del 1900 la battitura era uno degli eventi principali di tutto l’anno. La mia nonna mi raccontava che si chiamavano a raccolta amici e vicini per aiutare (e, ovviamente si ricambiava il favore quando era il loro turno) e si mangiava tutti insieme, senza lesinare. Ognuno metteva in tavola il meglio che potesse offrire, nell’ottica del detto “povero e coglione ‘un ti far mai”. Tutti quindi ci tenevano a far bella figura, a donare il massimo del possibile e a fare vedere che le spose erano ottime cuoche e che disponevano in abbondanza di ingredienti eccellenti.
La giornata della trebbiatura era lunga. Per prima cosa si sistemava la macchina per la battitura sull’aia. E poi si cominciava a lavorare secondo i compiti assegnati: chi buttava le manne, chi le inseriva nella trebbiatrice, chi faceva il pagliaio, chi recuperava la pula per darla poi in inverno agli animali e chi metteva via con cura il grano.
Finito il lavoro (intervallato da brevissime pause per bere un bicchier di vino e acqua – poca – per combattere il gran caldo), tutti via a lavarsi e a rinfrancare la gola con il pranzo preparato con cura dalle massaie. Che fossero tavoloni o balle di paglia ricoperte di tovaglie, il pranzo era sempre ben gradito.
Il menù variava di poco, ma il protagonista principale era sempre lui, l’ocio. A volte in umido, a volte arrosto. Tutte le parti erano utilizzate, dal collo alle zampe. Ma cosa è l’ocio?
Con il termine ocio (in casentino la “o” è aperta, a differenza di Arezzo dove la “o” è chiusa e in Valdarno poi cambia ancora e diventa “il” locio) in provincia di Arezzo si intende l’oca.
Come tutti gli animali di bassa corte, l’ocio era di esclusiva proprietà della massaia che non era costretta a dividerlo con il padrone del terreno. Un animale che poteva fungere da reddito in caso di necessità ma che più spesso era dedicato, grazie alla sua mole, a sfamare i numerosi commensali dei pranzi festivi.
Oltre che per le cerimonie importanti (quali i matrimoni) l’ocio in umido era, nella realtà contadina aretina, il piatto forte della battitura e della vendemmia.
Nell’economia contadina per evitare gli sprechi nell’ocio in umido si metteva parecchio pomodoro e aromi e la salsa diveniva anche condimento della pasta. Fresca. All’uovo. I “maccheroni”. Una pasta lunga, tirata con il cirnicchio, a seconda delle versioni spessa o sottile e della larghezza di 3 centimetri, come due tagliatelle. La versione più spessa era servita come si farebbe ora con le tagliatelle, condita e portata in tavola. Quelle sottilissime invece erano condite e lasciate “posare” dentro una zuppiera calda fino a quando ne prendevano la forma e potevano essere tagliate a fette (quando ero piccola a volte la mamma le faceva cosi e se avanzavano me ne mangiavo una fetta per merenda, mentre giravo per casa, come se fossero state una fetta di torta!).
I maccheroni “posati” erano comodi da portare dalla cucina all’aia e da servire e anche perché non si rovinavano nell’eventuale attesa nel caso in cui gli uomini avessero ritardato il loro arrivo a tavola. Per lo stesso motivo a volte si presentava a tavola la minestra d’ocio con la grandinina. Era l’occasione speciale per acquistare la pasta secca, uno strappo alla “solita” pasta fresca fatta in casa. La grandinina non si scuoce e faceva sempre festa.
Nel brodo si cuocevano spesso anche i colli degli oci che, ripieni di pane, pochissima carne (spesso le interiora dell’ocio) e erbe, costituivano un ottimo modo per riempire lo stomaco. Solo nei casi dei contadini più ricchi i colli non venivano utilizzati per fare il brodo ma erano cotti in forno, acquisendo un gusto decisamente superiore.
Maccheroni con l’ocio
Per i maccheroni
4 uova intere
2 cucchiai di acqua
farina quanto basta per ottenere un impasto morbido ma che non si attacca alle mani (più o meno 4 etti)
sale
Mettere su di una spianatoia la farina a fontana, aggiungere le uova, l’acqua ed un pizzico di sale. Lavorare con le mani fino ad ottenere un impasto consistente ma non troppo duro. Lasciar riposare per una mezz’oretta coperto con una ciotola di terracotta in modo che l’impasto sia poi più facile da tirare. Con il matterello, stendere la pasta fino ad ottenere una sfoglia sottile. Far asciugare per circa 15 minuti. Trascorso questo tempo, arrotolare la sfoglia (deve essere infarinata un po’, altrimenti si attacca) fino a metà e ripetere l’operazione dall’altra parte. Tagliare con il coltello tante strisce (per i maccheroni, almeno tre centimetri) che verranno poi sollevate con il coltello e stese sulla spianatoia. Cuocere in un’ampia pentola di acqua bollente salata.
Per il sugo (non chiamatelo ragù!)
metà ocio con le interiora tagliato a pezzi (lasciate le ossa che danno un buon aroma)
mezza cipolla rossa toscana
2 spicchi d’aglio
sedano, prezzemolo e carota
1,5 kg di pomodoro costoluto fiorentino
un paio di cucchiai di estratto/concentrato di pomodoro
olio extra vergine di oliva
vino rosso (chianti)
sale e pepe
In una casseruola di terracotta, far soffriggere con pochissimo olio, possibilmente su una stufa economica o su un focolare, tutti gli odori tritati. Appena rosolati aggiungere la carne dell’oca e le interiora. Far cuocere lentamente aggiungendo poco per volta mezzo bicchiere di acqua e, quando il liquido è tutto assorbito, unire mezzo bicchiere di vino rosso. Appena anche il vino è evaporato aggiungere il concentrato e i pomodori passati al passaverdure e lasciar bollire lentamente per un paio d’ore.
Quando la carne dell’oca è ben cotta, staccarla dalle ossa e si rimetterla assieme al sugo. Così facendo il sugo risulterà più denso e saporito.
Cuocere i maccheroni in abbondante acqua salata, scolarli lasciando un po’ di acqua attaccata e condirli in una zuppiera di terracotta calda alternandone gli strati con abbondante sugo. Se potete evitare, non mettete parmigiano perché il sugo è già parecchio grasso, ma se proprio non potete fare a meno “incaciate” proprio leggermente.
I maccheroni con l’ocio, fatti a regola d’arte, sono così buoni che è pressoché impossibile che avanzino, ma nel caso ve ne rimanessero un po’ per il giorno dopo saltateli, senza aggiunta alcuna, in una padella possibilmente di ferro (ma va bene anche antiaderente) leggermente unta fino a quando saranno caldi e leggermente croccanti. Una bontà.