San Martino di Tours (316–397) è festeggiato l’11 di novembre ed è un po’ santo patrono di tutti: dei medicanti per il suo atto di carità, dei sarti per il mantello; dei conciatori di pelli e dei lavoratori del cuoio per la cinghia alla quale era appesa la sua spada. Poiché una volta trasformò l’acqua in vino, è patrono degli osti, dei fabbricanti di brocche, dei bevitori e degli ubriachi. È patrono dei viticultori e dei vendemmiatori e dei sommelier, perché in occasione della sua festa si beve il vino nuovo. A San Martino si svolgeva la fiera più importante di animali con le corna, mucche, buoi, tori, montoni e perciò la fantasia popolare ha assurdamente promosso san Martino a ironico patrono dei mariti traditi, come ricordano alcuni proverbi: Per San Marten volta e zira, tot i bech i va a la fira, ossia, “per san Martino volta e gira, tutti i becchi vanno alla fiera”, sostengono i romagnoli.
Secondo Alfredo Cattabiani in Santi d’Italia (Rizzoli, Milano, 2013), San Martino divenne popolare anche per la collocazione della sua festa nel calendario che coincideva con la fine delle celebrazioni del Capodanno dei Celti, il Samuin. Quella festa pagana era ancora viva nell’VIII secolo e siccome Martino fu fin dal primo medioevo il santo più popolare d’Occidente, la Chiesa pensò di cristianizzare i festeggiamenti celtici trasferendo molte delle loro usanze nella festività del celebre vescovo di Tours.Perciò la festa di San Martino divenne in gran parte dell’Europa una sorta di capodanno: in Italia, fino al secolo scorso, l’11 novembre cominciavano le attività dei tribunali, delle scuole e dei parlamenti; si tenevano elezioni e in alcune zone scadevano i contratti agricoli e di affitto. Ed era anche il momento in cui si ammazzava il maiale, come accade tuttora in alcuni luoghi della Spagna dove un proverbio rammenta A todos nos llega el San Martìn, e cioè “A tutti ci arriva il San Martino”, nel senso che prima o poi tutti dobbiamo morire.
Il giorno di San Martino, giorno di precetto, era festeggiato con fiere, fuochi e banchetti, era tempo di baldoria, favorita dal vino “vecchio” che proprio in questi giorni occorre finire per pulire le botti e lasciarle pronte per la nuova annata: in Romagna affermano infatti che Par Sa’ Marten u s’imbariega grend e znèn, cioè per San Martino s’ubriaca il grande e il piccino. Ma in questi giorni scorre a fiumi anche il vino novello: è risaputo infatti che Per San Martino ogni mosto è vino: leggero, ma traditore per chi lo scambia per acqua, sicché nell’Istria la festa è detta anche degli imbriagoni. Forse è meglio ricordare a chi vorrà avere una vendemmia fruttuosa che si sbrighi anche a potare e a preparare il terreno attorno alla vite: Chi vuol far buon vino, zappi e poti nei giorni di San Martino. Perciò in Istria il santo viene chiamato San Martìn dei zapadori.
In ogni modo, il proverbio più celebre che si ripete ancora oggi rammenta che L’estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino. Spesso infatti intorno all’11 novembre torna per qualche giorno il bel tempo insieme con un po’ di tepore.
Anche per i bambini era una festa importante perché il santo portava loro regali scendendo dal camino e, se avevano fatto capricci depositava una frusta ammonitrice, detta in Francia Martin baton o martinet, usanza tipica dei periodi di Capodanno o di rinnovamento temporale.
Inoltre, così come i Celti festeggiavano il Samuin banchettando, il giorno di San Martino trascorreva anche nell’ingorda letizia di tavole ricolme e perciò, tuttora, la figura del Santo è sinonimo di abbondanza: Ce sta lu sante Martino, dicono ad esempio in Abruzzo quando in una casa non mancano le provviste.Il giorno di San Martino, giorno di precetto, era festeggiato con fiere, fuochi e banchetti, era tempo di baldoria, favorita dal vino “vecchio” che proprio in questi giorni occorre finire per pulire le botti e lasciarle pronte per la nuova annata: in Romagna affermano infatti che Par Sa’ Marten u s’imbariega grend e znèn, cioè per San Martino s’ubriaca il grande e il piccino. Ma in questi giorni scorre a fiumi anche il vino novello: è risaputo infatti che Per San Martino ogni mosto è vino: leggero, ma traditore per chi lo scambia per acqua, sicché nell’Istria la festa è detta anche degli imbriagoni. Forse è meglio ricordare a chi vorrà avere una vendemmia fruttuosa che si sbrighi anche a potare e a preparare il terreno attorno alla vite: Chi vuol far buon vino, zappi e poti nei giorni di San Martino. Perciò in Istria il santo viene chiamato San Martìn dei zapadori.
In ogni modo, il proverbio più celebre che si ripete ancora oggi rammenta che L’estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino. Spesso infatti intorno all’11 novembre torna per qualche giorno il bel tempo insieme con un po’ di tepore.
Una consuetudine comune tuttora in molti Paesi dove la tradizione celtica era più radicata è di mangiare l’oca proprio in questi giorni. Ce lo rammentano alcuni versi seicenteschi di Alessandro Tassoni: E il giorno di Ognissanti al dì nascente / ognun partì de la campagna rasa / e tornò lieto a mangiar l’oca a casa.
In Boemia, non solo si mangia l’oca per San Martino, ma se ne traggono le previsioni per l’inverno: se le ossa spolpate sono bianche, l’inverno sarà breve e mite; se scure è segno di pioggia, neve e freddo. Gli svizzeri la mangiano l’11 novembre ripiena di fette finissime di mele, mentre in Germania la si riempie di artemisia profumata, mele, marroni glassati col miele, uva passita e le stesse interiora dell’animale. I tedeschi affermano che l’oca migliore deve provenire dalla Polonia o dall’Ungheria, fra l’altro la patria di san Martino.In Italia i pranzi a base d’oca nei giorni di San Martino sono tipici soprattutto del Nord, Friuli, Veneto, Lombardia e Romagna. La ricetta della pianura padana più diffusa per San Martino, simile nella preparazione alla casoeuola a base di maiale della Lombardia, è il bottaggio: nell’oca così cucinata la freschezza e la fragranza della verza attenua l’intensità del suo sapore un po’ dolciastro.
Alcuni detti popolari rimarcano queste tradizioni: Oca, dindio e vin, polenta de sarasin, e viva san Martin! (Oca, tacchino e vino, polenta di grano saraceno, e viva San Martino!).
Un’usanza, quella di mangiare l’oca, da rispettare per avere fortuna, come ci ricorda un altro detto: Chi no magna l’oca a San Martin nol fa el beco de un quatrin!, ma l’oca però va presto a noia, perché il popolo la ritiene “stufadissa”: Done e oche, tiènghene poche.
Oltre all’oca, nel Veneto e nell’Istria per San Martino si mangiano come visto dindi (tacchini), ma anche fagiani accompagnati dalla polenta di grano saraceno, lepri cotte in agrodolce o in savor.
Tra le pietanze più tipiche in Friuli per la festa di San Martino troviamo molto spesso anche l’anatra. Cerchiamo di approfondire l’uso dell’anatra in cucina.
Ci sono anatre domestiche primaverili di taglia piccola e sapore più delicato e anatre autunnali più grasse e con un gusto più marcato. È annoverata tra le carni rosse, da frollare poco e in cottura si sposa molto bene con la frutta come agrumi, melagrana, mele, pesche, ciliegie, castagne.
Scegliete un’anatra con zampe lucide, poco rugose, giovane ma con il becco solido e, se spiumata, con pelle uniforme. Se preparata da voi, togliete la ghiandola odorifera uropigea che si trova sopra la coda e che all’animale serve per impermeabilizzare le piume.
L’anatra è un prodotto fortemente radicato nella cultura gastronomica italiana con cotture al forno, allo spiedo, alla griglia, in umido, in bottaggio con verze, anche se la moda attuale privilegia i soli petti cotti velocemente al sangue.In Friuli occidentale, per influenza veneta, sono molto gustosi i bìgoli co l’ànara (spaghettoni con il ragù d’anatra): si fa un ragù in bianco con carne macinata d’anatra partendo da un soffritto di porro, cipolla, sedano e carota, salvia e rosmarino, sfumando in cottura con vino bianco. Con questo sugo si condiscono i bìgoli che sono sorta di grossi spaghettoni fatti in casa con un apposito torchio in bronzo. Credo che dei bucatini possano egregiamente sostituire i bigoli, anche se il sugo d’anatra si sposa perfettamente, a mio avviso, anche con dei tagliolini all’uovo magari mantecati con abbondante parmigiano.Nell’immaginario comune la preparazione più tipica è l’anatra all’arancia, ricetta che si fa risalire alla tradizione francese, canard à l’orange, ma che in realtà è originaria della cucina toscana con il medievale paparo alla melarancia, piatto portato poi a Parigi da Caterina de’ Medici.
Un capolavoro della cucina cinese è l’anatra laccata alla pechinese, dove la pelle è resa croccante in cottura laccandola con una salsa al miele dopo essere stata staccata dalla carne soffiando con una cannuccia. La ricetta che racchiude in sé il mito stesso della più alta cucina internazionale è la Canard à la Presse del famoso ristorante stellato Tour d’Argent di Parigi. Il locale è stato fondato nel 1582, ma la ricetta è “solo” del 1890: davanti ai commensali il petto è cotto con la salsa bigarade ottenuta con i succhi della carcassa della bestia messa in una pressa d’argento appositamente costruita.
La mia ricetta di oggi per voi, Raza cui râs, anatra con le rape, è invece molto più semplice, ma gustosissima: l’ho assaggiata a casa di una nobile famiglia di Romans d’Isonzo (Gorizia) proprietaria della farmacia del paese da più di 200 anni. Come ingredienti solo rape ed un’anatra tagliata a pezzi piuttosto piccoli, senza nessun condimento. In una pentola con coperchio a chiusura perfetta mettere uno strato di rape tagliate a dadini, sale e pepe; poi dei pezzi di anatra salati e pepati, poi ancora rape poi ancora anatra e rape fino alla fine, terminare con rape. Chiudere bene il coperchio e infornare a forno medio per 4 o 5 ore. Servire anatra e rape scolando il grasso che si è formato sotto. Il curioso abbinamento di anatra e rape è ricordato anche nel ricettario della Contessa Perusini Mangiar e ber friulano, che è la bibbia della cucina locale, e nel Larousse Gastronomique, ma risale addirittura ad Apicio che nel suo De Re Coquinaria la riporta una ricetta di Anatem ex rapis.
Buon appetito!
Immagine di apertura
Simone Martini: Storie di San Martino – La divisione del mantello, Chiesa Inferiore di San Francesco, Cappella di San Martino, Assisi.