Blumenthal, o la sottile linea del (mio) pudore gastronomico

Heston Blumenthal è un celebre chef britannico, titolare di 3 stelle Michelin e proprietario di alcuni famosi ristoranti nel Regno Unito, ha scritto diversi libri e come altri chef suoi connazionali è, da molti anni, un personaggio televisivo.

E qui, tuttavia, converrà prima di tutto fare una piccola premessa personale, anzi personalissima. Non solo perché parlando di pudore, a qualunque livello, ci si trincera di fatto in un ambito che è soggettivo, intimo persino, all’ennesima potenza, ma anche perché, occorre dichiararlo, chi scrive scriverà senza avere la televisione. Poco male se non fosse che di televisione, e di televisione gastronomica, parlerà.
Ne parlerò però con uno sguardo di secondo grado, nel senso che i programmi di Blumenthal e in particolare i suoi Banchetti da incubo (traduzione non proprio azzeccatissima del british Heston’s Feasts) li guardo sul computer dove passo la mia vita, via youtube. Non serve scomodare Mc Luhan per capire che non è la stessa cosa, che il mezzo modifica il messaggio, che zupparseli in dose massiva in tempi ristretti e schermo piccolo non è la stessa cosa che dosarli con l’agenda televisiva, fosse pure satellitare.

Detto questo veniamo ai Banchetti, certamente di Heston e forse pure in qualche caso da incubo.
La serie è costruita sull’idea di ricreare, reinterpretando ma più spesso prendendo alla lettera, grandi banchetti del passato  prendendo spunto dalla storia, ma anche dalla letteratura e sfruttando tutte le conoscenze e le competenze di un cuoco autodidatta ma certamente molto, molto acculturato.
La scienza e la storia sorreggono uno sforzo interpretativo e creativo che non possono non impressionare; la sua cucina, come dichiara lo stesso Blumenthal in testa ad ogni puntata, non è una cucina tradizionale, ma una cucina fatta per stupire, per emozionare, per divertire i sei fortunati (e ignari) invitati al banchetto e soprattutto noi che guardiamo da casa. Dunque tutto o quasi diventa possibile: nel banchetto Vittoriano ispirato ad Alice nel paese delle meraviglie un brodo di falsa tartaruga (ovvero di testa di vitello) viene condensato attraverso complessi passaggi in un orologio, messo in infusione nella tazzina del cappellaio matto, mentre nel banchetto anni ’60 ispirato alla Fabbrica di cioccolato di Dahl (nella seconda serie del programma) viene ricreata una psichedelica carta da parati da leccare ai gusti salsiccia, cocktail di gamberi e ananas.
Ce n’è abbastanza, e pure troppo, per eccitare qualunque gastrofanatico. E infatti rimango ipnotizzata, ben ferma però nella convinzione che nulla si possa ripetere, ritentare, salvo forse, se solo capissi a quale scopo, la simulazione di un autentico terriccio fatto con olive nere seccate e semi di zucca tostati usato da Heston per la ricostruzione di un giardino vittoriano (con tanto di insetti commestibili!).
E del resto Blumenthal lo raccomanda sempre, ultimo avvertimento prima dell’inizio di ogni puntata: “mettete via i libri di cucina e, vi prego, non provateci a casa”. Però sì, è inutile negarlo, questo spingere l’avventura culinaria all’estremo cattura, stupisce, anche perché il programma è ben costruito, lui è simpatico e indubbiamente intelligente.

Passata però la sbornia per le condensazioni, le essiccazioni, le estrazioni e persino ancora ben dentro a questi processi creativi spinti all’eccesso, un senso di disagio fa capolino. C’entra la morale, c’entra la soggettività, c’entra appunto quella sottile linea di demarcazione che divide ciò che si fa da ciò che non si dovrebbe fare, in cucina come altrove.
Il punto forse sta proprio nella filosofia che regge tutto, il programma e forse anche l’approccio gastronomico di Heston Blumenthal, ovvero una cucina fatta per stupire, una cucina fatta per giocare. Può darsi, anzi lo ammetto senza remore, che io sia fortemente prigioniera del vetusto precetto per cui non si gioca con il cibo, il che non vuol dire nella mia sempre personale (personalissima!) morale che non si possa sperimentare, provare e riprovare anche solo per andare oltre, anche solo per evadare la noia di quella solita minestra. Però il cibo, mi sembra, deve restare la centro, al centro della tavola, al centro del suo senso, al centro della ricerca. Nei banchetti di Blumenthal a tratti l’ho perso di vista, ho perso di vista il suo rispetto, la sua centralità.
Si collega probabilmente a questo anche l’altro disagio provato nel guardare i banchetti da incubo, ovvero quello legato all’uccisione e al trattamento degli animali. Non sono vegetariana, mangio la carne e mi piace, ma in alcuni momenti del programma mi sono sentita a disagio. Non perché Heston mangiasse e cucinasse ghiri, zebre, serpenti e nemmeno perché andasse negli Stati Uniti per consumare carne di tartaruga proibita in Europa (anche se un piccolo fremito lo ho avuto), ma perché nell’uccisione e nel trattamento dell’animale mi sembra che al fondo manchi il rispetto. L’animale vivo è già materia, più o meno difficile da procurarsi, ci si fanno esperimenti, lo si piega, lo si plasma anche contro ogni naturalità. Così nel banchetto romano per ricreare il porco di troia si uccide un maiale, lo si sventra, lo si cuoce a bassa temperatura in una vasca per idromassaggio per 24 ore, quindi con l’aiuto di un endoscopio gli si infilano dentro salsicce che simulino gli intestini per portare in scena un taglio ad effetto di stile caligolesco.
Per non parlare del banchetto in stile Tudor in cui con l’aiuto di due chirurghi plastici Blumenthal decide di cucire “il retro” di un pollo” con “Il davanti” di un maiale per ricreare l’arrosto di un animale mitologico assemblato, salvo poi rinunciare a servirlo perché antiestetico e meditare soluzioni leggermente più astratte.
Troppo per una cena, troppo per un banchetto, troppo per un programma, troppo forse per il mio pudore gastronomico.

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Maria Teresa Di Marco

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