Chadō: la via del tè

“La Via del Tè consiste solamente nel preparare un fuoco, nel bollire dell’acqua e nel bere il tè. Non ci dovrebbe essere null’altro. Qui la mente del Buddha emerge e si rivela” recita la celebre massima del Maestro Sen no Rikyu, il monaco buddista zen che nel ‘500 codificò la Cerimonia del Tè rendendola quella sequenza di gesti rituali necessari alla purificazione della mente dalle cose futili o personali che conosciamo oggi.

Non inganni però la semplicità di queste parole: prendere un tè in Giappone ha a che fare prima con filosofia, religione, arte e solo dopo con il piacere di gustare una bevanda corroborante.

Anche nota come Cha no you (acqua calda per il tè) la Cerimonia del tè appare ad occhi occidentali come l’incarnazione della filosofia orientale: falsamente semplice e paradossale. Un tè cerimoniale completo può durare circa quattro ore ed inizia generalmente a mezzogiorno. La prima parte, Kaiseki, consiste in un pasto leggero. Segue un breve intervallo durante il quale gli ospiti si intrattengono in giardino, dove attendono che il gong suonato dal padrone di casa per cinque o sette volte li richiami nella chashitsu, la casa del tè. La seconda fase è quella del tè denso, Koicha. L’infuso si prepara mettendo il tè in polvere nella ciotola, versando l’acqua bollente e agitando vigorosamente con una frusta di bambù (chasen) , finchè non assume la consistenza di una zuppa di spinaci ed il colore della giada liquida. Ogni invitato beve dalla stessa ciotola, asciugando il bordo dove ha posato le labbra e la gira leggermente prima di passarla all’invitato successivo. Il tè usato in questa fase è un matcha che proviene da piante che hanno da venti a settanta anni e se ne impiegano tre cucchiai per ogni invitato. La terza ed ultima fase è quella del tè leggero, Usacha, più diluito e preparato fresco per ciascun invitato. Il tè questa volta proviene da piante che hanno da tre a cinque anni. Mentre l’ospite prepara il tè, gli invitati si servono di un pasticcino, una gelatina chiamata yokan, fatta con pasta di soia, zucchero e agar agar ed aromatizzata con frutta.

Durante tutto il chanoyu la conversazione è molto limitata, interferendo le parole con la tranquillità che si vuole perseguire.

Nella stanza del tè si entra da una porticina bassa che costringe a piegarsi in segno di umiltà. Ai tempi dei Samurai spade e alti copricapi restavano fuori dalla stanza del tè, luogo di pace ed uguaglianza. Anche ora anelli e orologi sono banditi (per non parlare dei telefonini). Il metallo dei primi potrebbe rigare il prezioso vasellame utilizzato ed i secondi schiavizzano la mente. Quando non è utilizzata per la cerimonia, la stanza del tè viene lasciata vuota e scrupolosamente pulita. Nessun altro uso è considerato appropriato. La casa del tè è infatti la “Dimora del Vuoto” – secondo il concetto buddista di inesistenza e sede della creatività priva di attaccamenti mondani, ma è anche la “Dimora dell’Asimmetria”. La simmetria ricorda la completezza e l’imitazione di una perfezione artificiale, mentre sia nella stanza del tè che nella casa giapponese l’equilibrio è occulto, le decorazioni sono sempre fuori centro e non si riscontra mai la rappresentazione artistica di un uomo.

I quattro concetti basilari su cui si fonda la cerimonia del tè, secondo Sen no Rikyu sono: Wa – armonia, Kei – rispetto, Sei – purezza e Jaku – tranquillità.

L’arte del tè era conosciuta in Cina già nel III° sec. d.C ma fu introdotta in Giappone solo verso la fine del VI° secolo dai monaci buddisti, che esportarono la bevanda insieme alle raffinate arti cinesi ed alla loro religione. I Giapponesi preferiscono però credere all’origine mitologica del tè che, secondo la leggenda, nacque con Daruma, il fondatore della setta Zen del Buddismo. Egli, dopo aver viaggiato per Cina ed India portando con sè la sacra ciotola dei patriarchi trovò asilo in montagna, in una grotta. Rimase a meditare per nove anni, guadagnandosi il titolo di “santo che guarda fisso”. Durante una delle sue meditazioni si addormentò e quando si risvegliò era così dispiaciuto che si tagliò le palpebre per essere sicuro che non avrebbe mai più commesso una simile trasgressione. Nel punto in cui erano cadute a terra le sue palpebre, crebbe una strana pianta, le cui foglie avevano la proprietà di scacciare il sonno. Era nato il tè, legato fin dall’orgine alla meditazione.

Per chi volesse approfondire un’arte millenaria sulla quale abbiamo appena sollevato il velo, in Italia esistono alcune associazioni che praticano e insegnano la cerimonia del tè, come Urasenke (dal nome di una delle principali scuole giapponesi – fondate dai discendenti del Maestro Sen no Rikyu) a Milano.

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Daniela Acquadro

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