Chiunque abbia frequentato l’università di Napoli, anche prima che prendesse nome da Federico II, si sarà fermato più di una volta, spinto dall’appetito, davanti a quella vetrinetta che ammicca sotto la porta delle sciuscelle, più correttamente nota come Port’Alba. A comprare una pizza a portafoglio, una di quelle fatte per essere mangiate in strada, ripiegate in quattro, e dette anche “a libretto”, lasciandosi sgocciolare sulle mani olio e pomodoro bollenti non senza una certa libidine un poco infantile.
La vetrina è lì da quando ho memoria, e da quando hanno memoria anche persone più anziane di me; è una certezza, un ricordo, la prova, confortante, che certe cose non cambiano mai, a dispetto delle mode, della voga gourmet, del tempo che passa e pure della maggiore disponibilità di cibi da passeggio più o meno esotici.
Ma forse non tutti quelli che hanno celebrato quel rito sanno che la pizzeria dietro quella vetrina è la più antica del mondo: l’Antica Pizzeria Port’Alba è là dal 1738, da quando non era che un forno di approvvigionamento per gli ambulanti che ritiravano le pizze, nelle famose stufe di rame, e le portavano per le strade della città. Spesso vendendole con il sistema “oggi a 8” o “a 8 giorni”: mangi la tua pizza oggi, la paghi tra 8 giorni, pratica peraltro rimasta in vigore ben oltre quegli anni remoti, visto che me ne parlava mio padre.
Fu nel 1830 che la pizzeria Port’Alba divenne un locale con tavoli, del genere che conosciamo oggi.
In origine le pizze non avevano ancora i classici condimenti a base di pomodoro: si guarnivano con alici o cicinielli (i bianchetti) o si preparava la ormai celebre Mastunicola, assurta oggi a nuova gloria, con strutto, formaggio, basilico e pepe. Ma comunque quella Margherita che si suppone creata per la regina d’Italia a quanto pare esisteva ben prima di lei, con altro nome. E la storia della pizza è anche una storia di teste coronate, non solo della casa Savoia ma anche dei Borbone: lo stesso Ferdinando IV di Napoli, poi Ferdinando I delle Due Sicilie, ne andava pazzo, tanto da travestirsi per poter mangiare indisturbato quel cibo così da popolani.
Ci racconta tutto questo Gennaro Luciano, maestro pizzaiolo che governa la pizzeria di Port’Alba in cui ha cominciato a lavorare a 14 anni, proseguendo la tradizione di famiglia; e della vetrinetta ci dice che se è ancora là, benché i tempi siano molto cambiati, è per volontà di suo padre, che gli chiese esplicitamente di non toglierla mai: i ragazzi avrebbero continuato a sciamare sotto la porta delle sciuscelle per rifocillarsi, e da adulti sarebbero tornati, ma sedendosi ai tavoli, con la famiglia, e così via per generazioni.
Ce lo racconta, dicevo, in occasione dell’Open Day dell’azienda molitoria della famiglia Polselli, ad Arce, nel frusinate, che rifornisce di farine la sua pizzeria da decenni; e ne fornisce tante altre, anche in quel ventre della pizza che è la città di Napoli, oltre a pasticcerie e forni in tutta Italia.
Sebbene una disturbante guerra delle farine agiti da qualche anno il mondo della pizza, insieme a una serie di altre contese che sarebbe bello poter ignorare, ci sono, dicevamo, cose che non cambiano. Casomai si evolvono, cercando di non tradire se stesse e le ragioni della propria esistenza.
Complice il trend salutistico, che potrebbe anche andar bene se non incorporasse dentro di sé molte anime, inclusa quella dell’allarmismo ingiustificato e della pseudoscienza, ma soprattutto complici gli enormi interessi che un settore come quello della pizza muove, ormai sembra che non si possa sedersi a un tavolo e gustarsi una Margherita senza il supporto di analisi chimiche e senza interrogarsi per i due giorni successivi sullo stato del proprio colon o del proprio stomaco.
Giacché qui ci facciamo un vanto di evitare le polemiche e gli strepiti, non entro nel merito delle personali convinzioni di ciascuno e men che meno delle sue preferenze, né esprimo le mie. Ciò che qui mi interessa rilevare è che anche gli storici produttori di farine oggi recepiscono le diverse istanze dando vita a nuove linee di prodotti che impiegano materie alternative.
La Polselli non fa eccezione. È una realtà antica, nata agli inizi del ‘900, e che, in qualche modo, ha fatto un poco la storia della pizza pure lei. E oggi accompagna quella storia, come quella della panificazione e della pasticceria, con dei nuovi prodotti che intercettano le esigenze contemporanee. Nella gamma assai ampia di farine, che copre le necessità di ogni possibile lavorazione, si distinguono quelle della linea “Le ricette”, di tipo 0 e 1, proposte ad esempio nelle versioni con curcuma, canapa, grano arso, farro, paprica, orzo tostato e avena, segale con semi di lino e girasole; e quelle della linea Zero, da grani italiani coltivati in campi lontani da fonti di inquinamento, prive di pesticidi, arricchite con fibre e ottenute con una lavorazione delicata che mira a stressare il meno possibile la materia prima.
L’azienda dispone di un laboratorio tecnologicamente avanzato in cui si analizzano le caratteristiche dei grani e del prodotto finito in modo da garantirne la salubrità ma anche lo standard costante, e anche di una Accademia in cui cuochi, pasticcieri, panificatori e pizzaioli mettono alla prova i prodotti e il loro rendimento, insegnando anche come usarli al meglio nelle differenti lavorazioni.
Ma naturalmente l’azienda continua, come fa da circa un secolo, a produrre farine più classiche, con un occhio di riguardo per la qualità e la resa e nessun intervento della chimica, e a rifornire pizzerie che seguono la tradizione, altre che optano per l’innovazione e altre ancora che cercano di conciliare le due cose.
Che ciascuno scelga la propria farina, e che ciascuno scelga la propria pizza. A me piace pensare che ci sia posto per tutti, purché si persegua il miglior risultato e non si dimentichino mai le proprie radici.