Il nostro viaggio tra le giovani generazioni di produttori di vino italiano, cominciato qui continua lungo l’Adriatico, alla scoperta di due fratelli marchigiani e due sorelle tarantine.
Una natura verde e rigogliosa fa da splendida cornice ai vigneti rigorosamente di vitigni autoctoni dell’azienda Agricola Biologica Vigneti Vallorani di Rocco e Stefano Vallorani.
Come in altre famiglie, anche in questa il loro nonno era un semplice mezzadro, che è riuscito ad acquistare il terreno per produrre vino sfuso e “cisterne”.
Rocco, dopo la sua laurea in enologia, un pendolarismo tra Perugia e Torino, vendemmia tra Europa e Nuovo Mondo, sei anni fa, nel 2010, ha deciso di tornare a “casa” per rilanciare quella terra che l’aveva visto nascere.
All’obiettivo principe, insieme al fratello Stefano, agronomo, di far coesistere tradizione e innovazione in una terra di grandi passioni, si aggiunge anche la forte riconoscenza verso la sua famiglia, in particolare dei nonni, artefici del riscatto che li ha trasformati da contadini ad imprenditori.
La loro filosofia di vita si rispecchia nel modo di produrre i loro vini: grande rispetto della terra grazie ad un’agricoltura sostenibile, certificata biologica, che ritroviamo persino nella scelta dei nomi per le loro nuove produzioni. I 7 ettari vitati dell’azienda sono dedicati esclusivamente ai vitigni autoctoni, Pecorino, Passerina, Malvasia e Trebbiano tra i bianchi e Sangiovese, Montepulciano tra i rossi.
I due fratelli sono molto diversi. Rocco è un tipo che cerca subito di centrare l’obiettivo che si prefigge, è l’incoscienza fatta persona mentre Stefano è quello pacato, legato alla sua terra, poco loquace, ma in perfetta sintonia col fratello.
I loro vini sono sempre “fatti” insieme, sia in cantina, dove Rocco la fa da padrone, che in vigna, regno di Stefano, perché i vini buoni, come giustamente sostengono, si fanno in vigna!
Questa la genesi di alcuni dei vini prodotti.
Avora, un Falerio DOP da passerina, pecorino e trebbiano, termine che indica i vigneti esposti a Nord/Nord Est, ossia “a Vora”, al vento come la bora.
Per la passerina in purezza Offida Docg, hanno scelto Zaccarì, nome della propria “casata”. Per questo vitigno abbastanza semplice, il cosiddetto pagadebit marchigiano, i due fratelli hanno cercato delle soluzioni alternative, sia in vigna sia in cantina, per farlo esprimere ai massimi livelli. Oltre ad una macerazione sulle bucce di circa 12 ore, il vino fermenta e affina in tonneau di rovere francese sui propri lieviti per almeno 16 mesi senza travasi e solo batonnage; seguono altri 6 mesi di affinamento in bottiglia. Tutto questo dona al vino intensità e complessità, note di fiori bianchi e agrumi, in particolare bergamotto, e sentori di vaniglia e nocciole.
Il Rosso Piceno DOP, blend di sangiovese e montepulciano, è dedicato a Polisia, la figlia del Prefetto Romano di Ascoli, a quei tempi pagano, che si fece battezzare dall’allora Vescovo di Ascoli per poi sfuggire dalle ire del padre e rifugiarsi sui monti dell’Ascensione dove scomparve. Da quel momento tutti i cristiani della zona iniziarono ad andar in pellegrinaggio su quel monte per venerarla. I vigneti dai quali i fratelli Vallorani producono questo vino sono proprio di fronte al Monte dell’Ascensione.
Il Konè è un Rosso Piceno Superiore, ancora sangiovese e montepulciano, che affina in barrique sulle proprie fecce fini per 14 mesi, e poi un altro anno in bottiglia. Il nome deriva da una parola dialettale di cui Rocco ignorava il significato. Infatti sua nonna, quando era piccolo, lo chiamava “Co’”, che lui credeva fosse l’abbreviazione di “cocco”/”cuore”, invece ha scoperto che deriva dalla parola greca “Icona”, immagine, cosa preziosa, proprio come questo vino che vede la luce dopo quasi tre anni dalla vendemmia.
Gli ultimi 2 vini sono quelli ai quali i due fratelli tengono di più, per somiglianza ma soprattutto perché dedicati con tanto amore ai loro nonni.
Il primo è la Riserva 2010 Sangiovese, da vecchie vigne, 22 mesi di affinamento in barrique di rovere francese ed un altro anno in bottiglia. Il suo nome? Sorlivio, cioè il Signor Livio, il nonno, un vero “signore” anche nel suo duro lavoro, una persona molto pacata e soprattutto di un’eleganza estrema proprio come il bouquet e i tannini di questo splendido Sangiovese
L’altro invece è Philumene, riserva di Montepulciano in purezza. Vinificazione e’affinamento ricalcano il precedente, ma questo è dedicato a Nonna Filomena, una donna di carattere, “fumante” come l’han definita i nipoti, dedicandole questo Montepulciano forte e un po’ scontroso, un vino dove si sente la terra e la potenza del territorio .
Mentre Rocco è simile a sua nonna, Stefano è il ritratto di quel nonno Livio, mancato troppo presto (come la nonna) per vedere e godere del riconoscimento dei suoi ragazzi.
Procedendo in direzione sud s’incontrano le due sorelle Tarantine, Dalila ed Emanuela Gianfreda dell’Antica Masseria Jorche, un cammino diVino lungo 5 generazioni, una storia simile a tante aziende vitivinicole pugliesi che per anni sono state il “serbatoio” delle “Cantine del Nord”, grazie anche al “Lu Palamientu”, la prima forma di “cantina sociale organizzata”. I loro vini, come tutti gli altri, partivano dalla stazione ferroviaria di Manduria per dirigersi al nord con il loro “Vino Rosso di Manduria”.
Per quattro generazioni nella famiglia Gianfreda il leitmotiv è stato questo, fino a quando Antonio, padre di Dalila e Emanuela, decide di dare la svolta. Di ritorno da Conegliano Veneto e grazie alle conoscenze acquisite con il suo diploma in enologia, dà una nuova spinta commerciale con il nord ed in contemporanea con il suo incarico di direttore di una importante cantina sociale del comprensorio, modernizza e amplia la cantina di famiglia.
Le sorelle crescono tra vigne e cantine, Emanuela seguendo il padre, Dalila più affascinata dalla gestione dell’accoglienza, insieme alla mamma, nella masseria di famiglia.
Chissà se entrambe, quando hanno lasciato Torricella per dirigersi, Dalila verso Milano per laurearsi in Economia e Marketing, ed Emanuela a S.Michele all’Adige per seguire le orme enologiche del padre Antonio, immaginavano che entro pochi anni avrebbero lavorato insieme nella loro terra creando i primi vini dell’Antica Masseria Jorche!
A loro detta lo sapevano o meglio era “inconsciamente programmato”.
Per Emanuela il motivo è che il suo plasma è vino, un tutt’uno tra vigna e cantina, anche se questo in lei non traspariva così chiaramente, sempre un po’ fuori dalle righe, dalle scelte controcorrente. Infatti al suo annuncio che avrebbe frequentato Enologia anche suo padre Antonio rimase spiazzato.
Dalila, in fondo, ha sempre saputo che sarebbe tornata, per il mare, per la gente, per l’attaccamento alla sua terra e soprattutto per la consapevolezza di essere stata fortunata a nascere in questi luoghi.
Maturando e studiando entrambe le sorelle hanno capito cosa volevano fare da grandi e hanno così chiesto al padre di fare il salto, di voler contribuire a far crescere la propria zona. Per orgoglio e testardaggine volevano far parte del cambiamento.
Il “genio e sregolatezza” ma anche la creatività e l’inventiva di Emanuela ha incontrato la concretezza, il rigore ed un fondo di psicologia di Dalila ed in soli quattro anni sono arrivati numerosi riconoscimenti.
Nelle loro vigne solo uve autoctone come Bianco d’Alessano, Fiano Salento, Negroamaro ma soprattutto Primitivo di Manduria.
Scegliere dei vini che più mi ricordano loro due è difficile, perché in ognuno c’è la terra del Salento e le figlie di questa terra.
In alcuni momenti, Emanuela, specie quando esce un po’ fuori dagli schemi, mi ricorda il loro spumante metodo classico, da vitigni che non ti aspetti, 75% Bianco D’Alessano e Fiano 25%.
Il vino base affina tre mesi in barrique e poi 24 mesi sui lieviti per la seconda fermentazione, conserva freschi profumi floreali e fruttati e un po’ di macchia mediterranea, seppur i lieviti sul finale leggermente si fan sentire.
La sua dolcezza giovanile, di speranza per il futuro senza dimenticarsi del passato, vien fuori quando mi racconta del Primitivo di Manduria Dolce Naturale e del perché del suo nome “Lo Apu”.
Le uve provengono da un piccolissimo appezzamento a Sava (patria a mio parere del Primitivo) che un simpatico vecchietto conferiva a Jorche.
Dopo la sua morte, la sorella dell’uomo propose ad Antonio la vendita del terreno a patto che si sarebbe preso anche l’Apecar, usando letteralmente queste parole “Però Ti pigliu pure lo apu”, e da qui nasce la dedica a questo vino che racchiude in se proprio i sentori più tipici e tradizionali di questo territorio.
Dalila invece mi ricorda il loro vino di punta, quella Riserva di Primitivo di Manduria, da vigne vecchie di oltre 40 anni, basse rese sia in vigna sia in vino, affinamento in barrique e nei loro “capauni”, le vecchie anfore tipiche della zona. Un vino austero, importante, diretto, che sa quello che vuole, ma al tempo stesso lo chiede con eleganza ed armonia.
Ogni famiglia è uno scrigno di storie, legami, aneddoti, tradizioni e sentimenti. Se ci mettiamo pure la passione per il vino e tutto il lavoro e le emozioni che ne sgorgano il risultato è un tesoro che vale la pena di essere raccontato e valorizzato!
[Photo Credit: Antonio Cimmino, Azienda Agricola Calatroni, Antica Masseria Jorche]