Qualche guida turistica lo ha definito stantio, con intenti spiritosi. Io lo trovo ancora affascinante e magico proprio per il suo respingere ogni ammodernamento. Non per nulla è una leggenda, e le leggende non si ammodernano: è il Caffè Hawelka, a Vienna.
Ce ne sono di più belli, lussuosi e scintillanti, di sicuro. E tutti hanno un assortimento di pasticceria meraviglioso. Hawelka no.
Nel Caffè Hawelka i divanetti di velluto sono logori, le tende anche, i quadri affumicati da anni di sigari e sigarette, il legno vecchio, le luci giallognole. Gli arredi credo non vengano rinnovati dal dopoguerra. Ricordo che la mia prima visita al locale fu negli anni ’90 e mi sembrò vetusto già allora. Di certo ad oggi, nel 2013, nulla è cambiato. Eppure se mi si dicesse di scegliere uno e solo uno tra i caffè viennesi per ritornarci, è Hawelka quello che sceglierei.
Sarà per i manifesti: teatro e musica alternativi, annunci di spettacoli balordi ma anche grande jazz, in un collage eclettico e disordinato. Sarà per i buchteln, ma su quelli tornerò tra poco. Sarà per le sedie e gli attaccapanni Thonet e i tavolini di marmo o per quell’antro polveroso che sembra essere il fondo del locale, bancone e retrobottega. O ancora per i camerieri che da sempre si aggirano in impeccabili smoking nonostante l’arredo fané e la patina depositata su ogni cosa da settant’anni di viavai. Ma no: dev’essere perché entrandoci ho sempre l’impressione di respirare la storia; un clima e un passato che hanno l’aroma del pensiero e del dibattito, di una vita culturale vivissima, di quelle che abbiamo dimenticato e archiviato in favore della discussione sull’ultimo reality show o sulla partita. Credo che il Caffè Hawelka sia il ritratto del suo fondatore, Leopold Hawelka, scomparso nel 2011 all’età di cento anni: vecchissimo eppure elegante, di un’eleganza fatta di discrezione, sottrazione e fedeltà a se stessi.
Me lo ricordo, Leopold: un signore di quelli veri, diritto, alto, snello, il volto che era una carta topografica di rughe e di anni. Qualche volta sulla porta d’ingresso, qualche altra seduto davanti a una tazza di caffè, sogguardato dai turisti e ignorato dai viennesi che lo consideravano una parte integrante del locale. Un’istituzione, lo ha definito qualcuno.
Leopold e sua moglie Josephine acquistarono il primo caffè, l’Alt Wien, nel 1936. Nel ’39 lo lasciarono e rilevarono il caffè Ludwig in Dorotheergasse, che divenne l’Hawelka. Costretti a chiuderlo subito dopo a causa della guerra (Leopold stesso fu richiamato alle armi), lo riaprirono nel 1945: il locale non aveva subito danni, e divenne un rifugio per i viennesi infreddoliti e impoveriti: Herr Hawelka andava personalmente a far legna nei boschi intorno alla città per alimentare la stufa, e fin dalle prime ore del mattino il caffè era affollato da gente che non aveva con cosa scaldarsi e ovviamente non ordinava nulla: si limitava a bere qualche bicchiere d’acqua offerto dalla casa.
Poi ebbe inizio la ripresa, e tra gli anni ’50 e i ’70 il caffè Hawelka divenne ritrovo per artisti, attori, scrittori, professori, intellettuali in genere. Si dice che molti dei quadri che ancora oggi sono appesi alle pareti siano stati donati da artisti squattrinati in cambio dell’ospitalità, del caffè, degli spuntini.
Se altri caffè viennesi sono stati la scena del dibattito culturale a cavallo tra ‘800 e ‘900 (ospitando gli scrittori della Jung Wien, gli Schnitzler e gli Hoffmannsthal) o di quello tra le due guerre, l’Hawelka ha visto accomodarsi sui suoi divanetti di velluto altre generazioni, quelle di Thomas Bernhard, Elias Canetti, Heimito von Doderer. La guerra fredda e la distensione sono state il fondale dei discorsi che si sono intrecciati ai suoi tavoli, pare persino di quelli loschi delle spie, che a Vienna pullulavano negli anni postbellici (riguardare “Il terzo uomo” di Carol Reed, con Orson Welles, per credere).
Poi anche all’Hawelka è arrivato il turismo, ma non ha mai travalicato limiti ragionevoli. Il caffè conserva intatta la propria atmosfera, il proprio carattere, anche oggi che Leopold non c’è più. Josephine era già venuta a mancare nel 2005. La signora Hawelka aveva una meritata fama per i suoi buchteln (“gnocchi” con marmellata di prugne: dolcetti di pasta brioche sofficissimi e burrosi) che comparivano in sala ogni sera intorno alle 22 e che oggi ancora vengono preparati dal figlio Gunther seguendo la sua segreta ricetta.
Forse è stata data una spolverata in giro, ad esempio i vecchi bicchieri in vetro duralex da osteria, ormai completamente opacizzati, sono stati sostituiti da altri più nuovi ma non molto più civettuoli; nulla però disturba la consueta impressione di un ambiente bohémien che rifiuta di inseguire le tendenze, che rispetta il proprio passato, la propria storia.
Non è per caso che la Wiener Kaffeehauskultur (la “cultura dei caffè” viennese) è stata inserita nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Unesco, che comprende, ad esempio, il Fado portoghese o l’opera dei pupi siciliana.
Eppure la scomparsa di Herr Hawelka un senso di vuoto lo lascia. Colpa anche del momento storico. Come ha scritto Luigi Spinola in occasione della morte di Leopold, “il meglio della mitteleuropa se ne va proprio quando a poche centinaia di chilometri dall’Hawelka, dove la crisi picchia più duro, riemerge il peggio dell’Europa”.