Può capitare anche ad un formaggio di rompere gli schemi ed andare contro ogni più scontata ovvietà.
Accade che in una terra proverbialmente famosa per le sue pecore nasca un formaggio di vacca e accade che questo formaggio non sia tradizionalmente fatto dai pastori per cui questa terra è tanto nota, ma da donne.
Il casizolu del Montiferru, presidio Slow Food dal 2000, è un formaggio sardo a latte crudo a base di latte di vacche sardo-modicane o bruno-sarde, allevate tutto l’anno allo stato brado, ed ha una caratteristica forma a pera ottenuta con gran fatica e con grande cura.
Gli allevatori per lo più itineranti erano soliti portare a casa la cagliata ed affidarla alle attenzioni muliebri.
Ci vuole pazienza e bisogna aspettare il giusto punto di fermentazione, quando cioè la cagliata comincia a filare, per poter cominciare la lavorazione: si fila in acqua calda e si modella immergendo la pasta filata in acqua fredda sino ad ottenere la tipica forma con una superficie esterna liscia, lucente e senza rughe.
La chiusura del casizolu, a due, a tre o a quattro punte, è un segno distintivo per gli addetti ai lavori che riescono a riconoscerne il produttore.
Guai poi a buttar via s’abbagasu, l’acqua bianca di siero residuo della sua lavorazione: le operose mani delle donne del Montiferru la utilizzano per le minestre.
Il casizolu tradizionalmente è un formaggio fatto per durare, quindi la pezzatura tipica è intorno ai tre Kg e viene fatto stagionare anche fino a due anni. Oggi si trovano forme più giovani (a partire dai due mesi di stagionatura) ed anche più piccole.
Due mesi o due anni che siano, anche la stagionatura va seguita con cura: nei primi giorni il formaggio va appoggiato su un canovaccio o su un cesto di crusca per evitare che la forma si rovini; solo dopo un paio di giorni viene appeso e sistemato in cantina.
Legato ad una produzione per lo più familiare, sebbene negli ultimi dieci anni siano sorti alcuni minicaseifici pur nel pieno rispetto dell’artigianalità del prodotto, il casizolu non ha ancora varcato in maniera sistematica i confini dell’isola.
Che sia un bene oppure un male, vi toccherà quindi andare direttamente in Sardegna per assaggiarlo.
Ringrazio Gabriella Belloni, responsabile Slow Food del presidio, per avermi raccontato del casizolu.
L’immagine in apertura è tratta da: http://www.fondazioneslowfood.com/it/presidi-slow-food/casizolu/