Quella di Venezia è una cucina di resistenza. Stretta tra l’orizzonte infinito del mare e la terra alle sue spalle è una cucina ricca di spezie e di sapori lontani, ma estremamente parsimoniosa e piena di ingegno nello sfruttare tutte le risorse, in primis quelle di casa.
E casa a Venezia vuol dire innanzitutto acque, non tanto e non solo quelle aperte del mare Adriatico oltre le bocche di porto, ma ben prima quelle della sua laguna che per secoli ha costituito una sorta di “orto” di terra e di acqua.
Molluschi e pesci autoctoni popolano (e soprattutto, ahimè, popolavano) questo ecosistema unico al mondo: peoci (cozze), cape (tutto il conchigliame), garusoli, gransi (granchi) e moeche, ma anche i rarissimi zotoeti (Sepiola rondeleti), le schie (gamberetti grigi), la bosega (Chelon lobrosus) e la volpina (Mugil cephalus). Tra tutti però è probabilmente il gò (Gobius ophiocefalus), un piccolo pesciolino amatissimo qui a incompreso altrove, a poter riassumere il senso e la virtù della cucina veneziana di acqua.
Minuto di taglia e spinoso di carni il gò non è un tipo che ami farsi amare. Ci vuole un misto di vocazione e di ostinazione per riuscire a pescarlo stanandolo a mani nude, come tradizionalmente un tempo si faceva, infilando il braccio nelle tane di fango rese vulnerabili dalla bassa marea. E ci vogliono caparbietà ed amore per cavarne il massimo e il meglio in cucina, essendo pesce di poca carne e tante spine, oltremodo facile a deteriorarsi.
Eppure il gò, a fronte della sua taglia e della sua aria scontrosa, è stato un re della tavola veneziana. Alla fine dell’Ottocento un mediatore all’ingrosso del mercato di Rialto stimava in settanta tonnellate la quantità di gò da lui solo commercializzata in un anno scarso, dunque ai veneziani certamente piaceva e piaceva parecchio, anche se i pochi chilogrammi che oggi se ne pescano rischiano di farlo dimenticare.
Del resto già Marziale si era stupito del particolare interesse che i Veneti riservavano a questo pesciolino e Bartolomeo Scappi nel 1570 trova il tempo di annotare come:
“se ne pigliano molti tra Chiozza e Venetia (…). Li pescatori (…) li cuoceno alle bragie, et ancho ne fanno pottaggio con malvagia, et acqua, e un poco d’aceto, e spetierie venetiane, e si friggono in oglio come gli altri pesci, et si serveno caldi con sugo di melangole sopra”.
Oggi che la pesca si è fatta stretta, perché stretta è la domanda e stretto il consumo, il gò finisce quasi esclusivamente nel famoso risotto, dove in effetti si celebra il pesce in forma di brodo, di fumetto ristretto, schiacciato con cura tra le maglie del passino. Un tempo, però, quando aveva i suoi pescatori specializzati, i goànti (detti anche brassarioi, per via di quel braccio usato per stanare i pesci nei nidi tra il fango) il gò veniva usato per mille fini gastronomici: gli esemplari più grandi finivano fritti o in gratella, più piccini erano minestre e brodi, financo per una versione di magro della pasta e fagioli. Cibo da re!
Nota: i disegni e le informazioni sul gò, la sua storia e la sua pesca sono tratte dal bellissimo volume di Luigi Divari, Belpesse, pesci, pesca e cucina ittica nelle lagune venete, Libreria Editrice Il leggio, Venezia, 2003.