Corèzzo. Un paese della splendida vallata del Casentino. Un piccolo villaggio di poche case sparse nella Valle Santa. Fatto di persone vere, che ti accolgono a braccia aperte. Un paese sconosciuto al turismo di massa, anche se in estate il numero di abitanti cresce parecchio. Fatto di pace e serenità. Di quella bella solitudine che rincuora. Di silenzio. Tranne ad agosto. Quando si celebra il suo gioiello. Il suo prodotto principe, anzi re. Il tortello alla lastra. Uno scrigno semplice, fatto di poveri ingredienti: acqua, farina, patate. E di arte. Quella che riesce a trasformare ciò che ad occhi semplici appare povero in un prodotto di unica bontà.
Il tortello alla lastra è prodotto tradizionale dell’Appennino tosco-romagnolo, realizzato da genti che, come sempre accade nelle montagne più sperdute, hanno dentro di sé l’abilità di riuscire a fare miracoli con il poco di cui dispongono. A volte neppure un fornello.
Gli abitanti dell’Appennino infatti spesso erano nomadi o effettuavano la transumanza con le loro greggi e necessitavano di piatti semplici da realizzare con ingredienti facilmente reperibili e attrezzatura minima. Non è un caso poi che i piatti della transumanza si mescolassero con i piatti degli abitanti locali, e che Casentino e Maremma abbiano spesso piatti similari come la scottiglia, l’acqua cotta o l’infarinata, frutto di inseminazioni e innesti nelle due culture rurali e di scambi di conoscenze. Ma questa è un’altra storia.
Nelle zone di montagna gli ingredienti disponibili sono sempre stati pochi: un po’ di grano (nelle varietà antiche, quelle in grado di resistere al freddo e che necessitavano di poca acqua, ma che purtroppo producevano anche poco), qualche patata (le patate di montagna si sa, sono gustose), qualche pomodoro appeso ad asciugare in modo da essere disponibile anche in inverno, un po’ di carne di maiale (da usare con parsimonia), strutto e rigatino, qualche erbetta e tanta fantasia. Se andava bene pure un uovo ogni tanto. Ma d’inverno le galline poco donavano alla massaia. Poi c’era il pecorino, fatto magari in estate, quando il latte era più abbondante. E castagne. Poco altro.
La fame invece non mancava. Quella era sempre presente, sia nei giovani che negli anziani. E bisognava ingegnarsi per soddisfarla con i pochi ingredienti, da proporre in modo sempre diverso. Perché un tempo per la massaia far arrabbiare il marito era cosa da non fare.
E come in alcune zone di Italia del sud si facevano dei piatti ricchi di pasta e patate anche nell’Appennino si pensò di dare vita ad un piatto che potesse basarsi su quegli ingredienti. E se per chi aveva un tetto e un tavolo su cui appoggiarsi si pensò di realizzare i tortelli di pasta all’uovo farciti di patate e conditi con olio e pepe (un piatto che con leggere varianti nel ripieno e nella forma si ritrova anche in altre zone d’Italia). Per chi si muoveva e non aveva un fornello degno di tale nome nacquero i tortelli alla lastra.
Pasta povera, fatta solo di acqua e farina. Una spoglia come si dice in Casentino (che però riveste) un semplice impasto di patate e poco più, un po’ di formaggio, un pomodorino, un po’ di pancetta (non sempre), magari un uovo. E a volte la patata si sostituisce con la zucca, altro ingrediente povero, oppure con la verza o il cavolo nero. Quello che c’è, insomma. E magari lo zenzero, termine che nella parlata locale designa il peperoncino.
Il tortello si presenta di dimensione decisamente più grandi di quelli che si mangiano conditi a tavola, anche perché sono più pratici da portarsi in giro e più semplici da cucinare.
Ma come si preparano? In realtà io li ho conosciuti direttamente quando ero già grandina assai. Esattamente a Corezzo, quando mi recai in inverno alla proloco per fare un’intervista su questo stupendo prodotto. E fummo (il giornalista, sua moglie ed io) accolti in modo straordinario da due signore del paese che realizzarono i tortelli davanti ai nostri occhi.
Uno spettacolo di giocoleria.
La pasta fu stesa in un disco pressoché perfetto. Il ripieno (a base di patate bollite della Valle Santa, un po’ di sugo vegetale, poco, giusto quel che basta a colorire appena, il tutto in proporzioni tenute abbastanza segrete, con scambi di sguardi tra le due signore di fronte alle domande garbatamente insistenti con dettagli alla fine mi parve di capire furono lasciati volutamente vaghi) venne steso su metà disco. E chiuso con l’altra metà. Il bordo esterno sigillato in una sorta di enorme panzerotto. E poi apparve il piatto. Che fu ruzzolato (lasciato scorrere) sulla pasta formando delle righe parallele distanti una decina di centimetri. E poi perpendicolari a chiudere dei rettangoli. Una rotella tagliapasta passata nei solchi e via. Pronti.
Si passa alla cottura. Sulla lastra. Ma non la pietra ollare di moderna concezione. Una pietra serena posta sul fuoco. Cotti fino alla formazione di macchie dorate o brunite. Si mangiano caldi, scaldandosi le mani cosa che in inverno, nel rigido inverno in zone senza riscaldamenti o addirittura all’aperto, male non fa. Un tortello caldo, una sorta di scaldamani all’antica, avvolto in carta da pane, tenuto magari in tasca, andando a scuola, o andando nei campi. Perché tanto il tortello alla lastra è buono sempre, anche mangiato in un secondo momento, anche a temperatura ambiente.
Che poi alla fine i tortelli alla lastra sono una sorta di cassone romagnolo. Ma più piccolo. Con la pasta priva di grassi. La versione da “passeggio”.
E se un tempo per mangiarli si doveva per forza andare nelle case o aspettare la sagra di agosto, adesso una piccola realtà ha iniziato a produrli e commercializzarli in zona. Per fa sì che il piatto simbolo di un’area marginale, cibo del nomadismo e della sopravvivenza, divenisse cibo conviviale, da assaporare per strada o comodamente seduti, come pasto o semplicemente come spuntino.
Comunque sia, una delizia da non perdere.
Per una bella sequenza su una gara di tortelli in occasione della sagra, si veda qui