La cucina degli emigranti

Si è molto discusso, e molto ancora si discute, sulla possibilità che l’Italia, già priva di molte cose, possa essere priva pure di una sua cucina nazionale. La cucina italiana in sostanza farebbe fatica ad esistere, schiacciata paradossalmente dalla ricchezza delle proprie tradizioni regionali.

Del resto, sì sa, abbiamo una storia (nazionale) giovane, travagliata e un po’ distratta che quasi non si è accorta di aver recentemente compiuto i suoi primi 150 anni.
In cucina tutto questo si è tradotto in una situazione a due facce, una medaglia che segna testa o croce a seconda della benevolenza con la quale la si guarda: varietà o schizofrenia, abbondanza o particolarismo, addizione delle tradizioni e dei modelli o divisione degli stessi.
Ma le cose, come spesso succede, si fanno più chiare se solo si allontana lo sguardo e si cambia prospettiva, se si guarda a se stessi da uno scoglio, o meglio, da un continente di alterità, mettendo di mezzo il mare tra la propria identità (anche culinaria) e la propria radice fisica.
In un breve passaggio di un suo libro intelligente e piacevole (Come mangiavamo. Cinquant’anni di storia italiana tra tavola e costume, Gambero Rosso 2006) Stefania Aphel Barzini ricostruisce proprio questo passaggio, mediandolo attraverso la propria esperienza umana e professionale. Immersa negli archivi multimediali di Ellis Island in cui sono raccolte le vite di milioni di persone di ogni nazionalità immigrate negli Stati Uniti e di lì transitate, la Barzini rimane folgorata dalla voce di una donna, Maddalena, immigrata bambina in America dalla Lucania.
Maddalena racconta la sua storia: è partita per il nuovo mondo per sfuggire alla fame, a una povertà fatta solo di aglio, cipolle e patate, ma ha lasciato indietro la propria terra, una nonna amatissima e il profumo di quel cibo che non le bastava, ma che, nella terra dell’abbondanza, sarà perduto per sempre. Il paradosso è tutto qui. Chi parte, chi è partito per fame ha sempre in tasca una nostalgia alimentare che non il sogno, e nemmeno a volte la realtà del Paese della cuccagna riesce a cancellare.
Parte della nostra identità nazionale in cucina, e forse non solo, arriva da qui in uno sguardo riflesso che incrocia al tempo stesso la nostra percezione di noi stessi e lo stereotipo di chi ci ha visti e ci vede da fuori, mangiatori di spaghetti.
Quello della pasta del resto è un caso interessante perché stigmatizza in un piatto, ma anche in una fisicità e in una socialità del cibo uno stereotipo che abbiamo scoperto “vero” guardandoci per la prima volta in uno schermo, fosse pure lo sguardo non sempre benevolo dell’altro. Icona di italianità ben prima che lo fossero nell’immaginario e persino nei piatti reali degli italiani, gli spaghetti sono stati il nostro ossimoro. A partire dagli schizzinosi racconti di viaggio dei giovani nord-europei (e in particolare inglesi) durate le ondate del Gran Tour tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento l’iconografia di scugnizzi e lazzaroni, ha tramandato un’immagine ricorsiva fatta di mani e gesti ostensori: spaghetti lunghissimi, sollevati con le mani, testa reclinata all’indietro e tutta l’espressività di una felicità transitoria più o meno in posa.

Rodolfo Valentino a uno spaghetti dinner (foto tratta da Pinterest)

Rodolfo Valentino a uno spaghetti dinner (foto tratta da Pinterest)

Fa sorridere poi il fatto che nemmeno colui che sarà destinato a impersonare la mitologia eterna del seduttore, Rodolfo Valentino, si sottrarrà a questa incarnazione. Un’immagine che risale probabilmente ai tardi anni Dieci lo ritrae vestito di bianco con una matassa inverosimilmente lunga e collosa di spaghetti, lui che era effettivamente arrivato come Rodolfo Gugliemi negli Stati Uniti pochi anni prima, intorno al Natale del 1913 con una valigia da emigrante. Nei ricordi, forse un po’ rimaneggiati, del grande regista americano David Griffith (quello di Nascita di una nazione) Rodolfo Valentino, o come si faceva chiamare agli esordi della sua carriera Rodolfo di Valentina, fu cuoco e cameriere in uno spaghetti dinner e proprio in questa occasione il regista (con cui mai Valentino lavorò) afferma di averne notata la straordinaria fotogenia.
Da lì in avanti lo stereotipo sarà ripercorso e amplificato nel cinema e non solo, all’estero e pure in patria. Totò, Sofia Loren, Alberto Sordi e mille altre scene di spaghetti rappresenteranno una nazione che ha imparato l’italiano con la televisione e uniformato i propri consumi alimentari con la pubblicità.
Ma per chi è partito tutto è successo un poco prima, perché le differenze regionali si attenuano nella lingua e nel cibo quando si vive in un altro paese ed allora è la nostalgia che prende la gola ed esaspera i sapori. Lo nota sempre la Barzini la cucina italo-americana urla forte in fatto di gusto: cipolla e aglio a profusione, e sugo tanto, tanto sugo. Ma di mezzo c’è appunto la mancanza e il ricordo, di cipolla e aglio, proprio ciò da cui si è fuggiti.

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Maria Teresa Di Marco

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