Ci voleva una franco-partenopea per scrivere un libro dedicato alla pizza napoletana. E pubblicarlo, ma in Francia. Perché qui in Italia, si sa, la pizza subisce lo stesso destino della pasta: tutti siamo convinti di conoscerla e di saperne tutto e l’editoria ritiene che non sia un argomento appetibile per il grande pubblico (troppo scontato, troppo universalmente noto).
Insomma, la patria rinnega le sue figlie più celebri, che esuli e raminghe vanno per il mondo vestite di stracci, vale a dire, fuor di metafora, variamente massacrate in sedicenti ristoranti italiani ovunque proliferanti.
Il libro in questione, però, verrà edito in Italia da Guido Tommasi. Lodevole iniziativa, perché ciò di cui crediamo di sapere di più è, talvolta, proprio ciò che conosciamo di meno. Anche oggi che la pizza è oggetto di enfasi persino esorbitante, tra difesa della tradizione e interpretazioni “devianti”, con eterni strascichi di polemiche e guerre di religione, la realtà italiana rimane quella di una conoscenza scarsa e approssimativa, di frisbee spacciati per pizza in grandi catene all’americana che possono vantare un vasto pubblico di frequentatori, di pizze surgelate magnificate come “autentiche” e pubblicizzate come morbide dentro e croccanti fuori, di diatribe sul “come vi piace la pizza napoletana” che dimostrano quanto si ignorino le caratteristiche che realmente deve avere, dividendo le pizze in due categorie: bassa e croccante, alta e morbida, nessuna delle quali corrisponde alla pizza verace.
Alba Pezone, napoletana trapiantata in Francia da anni, titolare di una scuola di cucina italiana e saldamente legata alle proprie radici, in “Pizza – Recettes des meilleurs pizzaïolos de Naples” compie un viaggio verso le sue origini visitando alcuni locali-simbolo della tradizione napoletana della pizza ai suoi massimi livelli, parlando con gli artisti della pizza, raccontando il loro saper fare, svelando i loro piccoli segreti, i dettagli a cui ciascuno di loro è più attento, i loro prodotti del cuore e alcune curiosità.
Il colore non manca, forse anche in dose eccessiva; del resto il libro è concepito per un mercato estero e non ambisce a porsi come testo di riferimento per tecnici, nonostante la presenza di ricette: l’impasto secondo Enzo Coccia, la pasta per la pizza fritta secondo Enzo Piccirillo, il ripieno di scarola a crudo secondo Franco Pepe (“Franco Pepe sarà la mia sola infedeltà alla pizza della tradizione napoletana”, scrive la Pezone) e ogni genere di farcitura, dalla più classica alla più insolita, con qualche divagazione extrapizzaiola come il tortano o la frittata di maccheroni. Ma come ogni conoscitore sa, preparare pizze in casa non sarà mai come prepararle in pizzeria e nessuna ricetta, nemmeno d’autore, può espungere la competenza del pizzaiolo, la sua capacità di adattare l’impasto al tempo atmosferico, all’umidità, alla temperatura, alle caratteristiche del forno. D’altronde non siamo in presenza di un manuale ma di un atto d’amore, perciò ben venga il colore, così inscindibile dall’immagine della città di Napoli che si ha all’estero, così necessario, pare, a far accettare con un sorriso di simpatia una realtà che potrebbe risultare incomprensibile a chi non l’abbia mai vissuta. Colore che predomina specialmente quando si parla delle pizzerie più popolari, punto di riferimento dei quartieri in cui si trovano e meta di avventori abituali che portano persino i propri personali ingredienti per farsi preparare una pizza su misura. Usanza che a me, partenopea di nascita e di vita, era sconosciuta. Ma dietro il colore la ricerca dell’artigiano si intuisce bene, soprattutto quando si lascia a lui la parola. “La pizza è una cosa seria” , dice Enzo Coccia. E fortunatamente cominciano ad esserne consapevoli in molti. Se non lo fosse, del resto, e non potesse a buon diritto proporsi come piatto per palati fini, pur restando popolare, non si comprenderebbe un bellissimo esercizio del gusto come la pizza ai quattro pomodori, con San Marzano, pomodorini del piennolo del Vesuvio, Pachino e pomodorini gialli di Paestum.
Da napoletana, apprezzo particolarmente che Alba Pezone abbia dedicato uno spazio alla pizza fritta, cugina trascurata della classica pizza napoletana da forno a legna, poco nota al di fuori dei confini della città: goduria antica e proibita che si ha pudore anche a nominare, farcita con ogni ben di Dio senza riguardo alcuno per l’esubero calorico (ricotta, provola, ciccioli…), immersa in olio bollente fino a diventare gonfia e dorata, è cibo popolare e senza nobiltà, goloso come spesso lo sono i cibi popolari e senza nobiltà. E un tempo la si poteva acquistare fuori dai “bassi”, dove le donne arrotondavano il magro bilancio familiare mettendo a frutto la propria dimestichezza con l’impasto e i calderoni d’olio: una seggiolina, una padellona, e via a smerciare pizza fritte di fattura casalinga da addentare rigorosamente bollenti rischiando l’ustione a causa del fluido traditore che ricotta e mozzarella (o fiordilatte, o provola) rilasciavano appena infranto il guscio gonfio e soffice.
In questi tempi in cui la pizza talvolta si riduce a supporto per sostenere qualunque ingrediente, nonostante la custodia amorevole degli artigiani più attenti, forse è proprio la pizza fritta la depositaria di un’identità che rischia di andare perduta. Non è mai diventata globale. Perciò non ha smarrito la sua natura.
Alba Pezone – Pizza. Recettes des meilleurs pizzaïolos de Naples – Marabout
Presto edito in Italia da Guido Tommasi