Le zone di montagna della provincia di Arezzo sono caratterizzate da un gran numero di castagni da cui ricavare la farina “dolce”, un tempo estrema ricchezza per l’inverno delle famiglie contadine.
La farina ottenuta dopo essicatura nel seccatoi e macinatura in mulini spesso ad acqua (oltre a quello famoso e a rischio di chiusura del Pagliericcio di Cetica in Casentino – ne avevamo parlato anche qui – ce ne sono numerosi censiti anche nella zona di Caprese Michelangelo in Valtiberina) era un tempo conservata in casse di legno. Per preservarla dall’attacco dei tonchi della farina, veniva pressata fortemente in modo che l’aria non potesse penetrare. Al momento del bisogno ne veniva staccata la quantità necessaria a colpi d’ascia e poi si setacciava, in modo da riportarla nuovamente allo stadio di farina soffice.
Farina dolce. In opposizione a quella di mais. La farina gialla, perché da noi il mais bianco non si è mai visto.
E come le castagne venivano cotte in tutti i modi possibili, anche la farina faceva apparizione sulla tavola nella versione dolce (che poi è la più diffusa anche attualmente, come castagnaccio o baldino come si chiama nell’aretino) o in quella adesso meno conosciuta di polenta dolce.
Saper fare bene una polenta dolce non è da tutti. Alla Pro-loco di Cetica ne fanno una straordinaria, elemento base della sagra della castagna di novembre. Un tempo a farla era Ottavio, che adesso ha passato il palo per mescolare (spesso il matterello) ai giovani della zona. E per non sbagliare ho chiesto indicazione ad un grande amico che abita in paese e che di polenta ne ha mangiata tanta: Enzo.
“Serve il paiolo (ovviamente quello di rame, sulla tradizione non si sgarra)”.
Si porta l’acqua a bollire (inutile dire che si tratta di calore che deriva dal fuoco vivo, meglio se di focolare, ma al limite – e si noti “al limite” anche quello della stufa economica coi cerchi), si butta la farina già stacciata, un pizzico di sale e lasciamo bollire fino a quando l’acqua ha zuppato tutta la farina.
A quel punto si toglie dal fuoco, si scola l’acqua in eccesso, si mette il paiolo in una panca forata in modo che non si muova (chi non l’aveva metteva il paiolo “a stretto” in un angolo della stanza)
e si gira con il mattarello fino a che scompaiono i grumi, si dà la forma alla polenta con un mestolo bagnato di acqua fredda.
Si riporta sul fuoco vivace 2 minuti ruotando il paiolo e si mette sul tagliere.
Una volta un po’ “posata” si taglia con il filo”.
Sembra difficile? La verità è ancora peggiore. C’ho provato diverse volte ma come quella di Ottavio e dei “ragazzi” ceticatti non mi è mai riuscita. E non è colpa della farina, che prendo al mulino Grifoni o che mi regala Enzo stesso, è proprio la manualità che occorre per realizzare questa delizia (che, con la farina certificata senza glutine, è idonea anche per i celiaci) che si acquisisce solo dopo tanta pratica. E nei paesi di montagna la pratica non mancava. La polenta dolce era presente in tavola quasi tutti i giorni in inverno, modo economico per sfamare tante bocche riempiendo gli stomaci con volume e calore.
Il bello viene quando è il momento di portarla a tavola.
Con cosa si accompagna?
Per palati delicati di bambino o di “straniero” l’accompagnamento più gettonato è la ricotta. Di pecora. Asciutta. Gustosa. Dolcemente grassa. Fredda. A contrasto con una polenta dalla consistenza liscia e profumata, e bollente da morire.
Per i veri cultori della tradizione (e, se siete non autoctoni, per i veri amanti del brivido) l’accompagnamento ideale è il sambudello al sugo. Che per me non ha eguali. Amo la ricotta di pecora, ma il sambudello al sugo…. Ah!
Eccerto. Cosa è il sambudello? Trattasi di insaccato fresco, tradizionale del Casentino, ottenuto con parti non nobili del maiale, a cui si aggiungono rigatino (pancetta), guanciale, ma soprattutto cuore, milza, fegato e polmone, passate nel tritacarne e insaporite con sale, pepe, spezie, semi di finocchio, aglio e una piccola aggiunta di vino rosso. Un gusto forte, ma non troppo, nulla a che vedere con le salsicce di fegato di altre zone, ma sicuramente una pietanza diversa dalla ricotta. Saltato in padella e poi ripassato con il pomodoro diventa un piatto dal gusto deciso, saporito, che contrasta con la delicata polenta in questo caso non per temperatura ma per gusto forte opposto al delicato profumo delle castagne.
L’abbinamento deciso però non è limitato alla zona di Cetica, se è vero che a Talla si mangiava la polenta con il baccalà in umido. Certo, cambiava la base, ma il pomodoro, vero re della pietanza (in entrambi in casi tanta salsa e poca sostanza) era presente, come pure il peperoncino, che rendeva necessaria la presenza di tanta polenta, in grado di riempire gli stomaci infreddoliti e vuoti di chi aveva lavorato tutto il giorno all’aperto. Per chi invece aveva poco poco, la polenta accompagnava l’aringa (la renga) ma spesso era solo strofinata sul pesce essiccato, per dare profumo e sensazione di piacere.
Un piacere straordinario quello della polenta dolce, ormai perduto nelle case cittadine e a rischio anche in quelle di montagna. Un bene prezioso. Il sapere di un tempo che deve restare la ricchezza del nostro domani.
Polenta dolce con sambudello
In un paiolo di rame messo sul focolare si fa bollire l’acqua, si butta la farina setacciata, un pizzico di sale, si rimette sul fuoco e si fa richiudere l’acqua intorno alla farina, in modo che la polvere si inzuppi bene. A quel punto si toglie dal fuoco, si scola l’acqua in eccesso, si gira con il mattarello fino a che scompaiono i grumi. Con un mestolo ben bagnato di acqua fredda si dà la forma rotonda alla polenta e si riporta sul fuoco vivace 2 minuti ruotando il paiolo fino a quando non si stacca bene. Si rovescia sul tagliere. Una volta un po’ “posata” si taglia con il filo.
Si accompagna con i sambudelli.
Per 4 persone 4 sambudelli (ma un tempo molti molti meno).
Si fanno rosolare i sambudelli in padella e si aggiunge il pomodoro, facendo cuocere fino a quando la carne non sarà perfettamente cotta fino al cuore.
Foto: Nicola Impallomeni
A Moggiona la polenta dolce si accompagnava con il sangue di maiale che veniva ucciso nel periodo pre-natalizio