È un dolce classico, di quelli ai quali non si bada nemmeno più, così come non si fa caso agli elementi del paesaggio quotidiano che abbiamo intorno. Buono ma consueto, l’éclair assurge oggi a nuovi onori, oggetto di una scatenata operazione di ringiovanimento da parte di titolati pasticcieri, e di una vera e propria venerazione tra gli abitanti della Ville Lumière.
Ma procediamo con ordine, partendo da lontano.
Popelini, chi era costui? Cominciamo con il pronunciare il suo nome con l’accento giusto, che poi è quello sbagliato: Popelinì, alla maniera francese, perché, nonostante monsieur Popelini fosse italiano, conseguì fama e rinomanza in terra d’oltralpe al seguito di Caterina de’ Medici, l’italiana divenuta regina di Francia. A lui si deve, secondo i più, l’invenzione della pâte à choux, originariamente chiamata pâte à chaud (pasta a caldo) per la sua caratteristica lavorazione: com’è noto, la prima parte della preparazione avviene appunto a caldo, sul fornello. E dunque, si era nel XVI secolo quando apparve l’impasto che avrebbe fatto da base anche all’éclair, ma a quell’epoca se ne realizzavano soltanto piccoli choux piuttosto irregolari disponendo con il cucchiaio mucchietti di impasto sulle teglie da infornare. Perché la pasta choux entrasse nella modernità fu necessario attendere il XVIII secolo e Antonin Carême, che ne affinò la ricetta, creò, a quanto si dice, il croquembouche e i profiteroles e ideò anche l’éclair come lo conosciamo oggi, modificando dei dolci già esistenti chiamati duchesses, di pasta choux e di forma allungata, che Carême farcì con crema pasticciera variamente aromatizzata e ricoprì con una lucida glassatura.
E parliamo un po’ di vocaboli, ché in questa storia le parole hanno una sorte strana e confusa. Chou, che in Francese significa cavolo, è, nel caso della pâte à choux, corruzione di chaud, perciò non ha attinenza con il cavolo e con la sua forma, come a volte si crede. Sciù, vera e propria trascrizione fonetica di chou, è, in Campania, il nome dell’éclair così come usa prepararlo in quella regione: un po’ più grassoccio del suo parente francese. In Italia, poi, lo chou, quello classico, tondeggiante, si chiama bigné, parola che deriva dal francese beignet; ma il beignet in Francia non è lo chou, bensì una gonfia pasta fritta, dolce o salata. Qualche mal di testa questa vicenda di parole prestate e acquisite lo dà.
In più, non è chiaro da dove venga fuori la parola éclair. Il significato letterale è “lampo, baleno”. C’è chi dice che fu la bontà del dolce, tale da spingere a ingoiarlo in un baleno, a meritargli il nome, e chi sostiene che invece ne fu responsabile la brillantezza luccicante della sua glassa; altri vogliono che la fama del piccolo capolavoro di pasticceria si sia sparsa in un lampo, da cui il nome.
Fatto sta che il classico éclair, per lo più al cioccolato o al caffè, un po’ negletto in tempi recenti, è oggi la vera mania dei francesi. È di nuovo un baleno, perché in un baleno se ne sfornano varianti complesse, fantasiose, sia dolci che salate. Da pochi anni sono nate, a Parigi, due pasticcerie interamente dedicate a lui: L’éclair de genie (letteralmente: lampo di genio), di Christophe Adam, vero tempio del culto dell’éclair che vanta oggi diversi punti vendita in città ed è sul punto di aprirne uno in Giappone, e L’atelier de l’éclair, a Montorgueil, in Rue Bachaumont. Non solo: all’éclair è dedicata la Quinzaine des éclairs, un evento che dura due settimane durante le quali i pasticcieri aderenti preparano varianti speciali del dolce che possono essere gustate solo in quei giorni; e Fauchon, la lussuosissima gastronomia e pasticceria parigina, in suo onore organizza la settimana dell’éclair, giunta nel 2014 alla settima edizione, presentando decine di nuove farciture e glassature. Nel 2014 sono state ben 36, tra cui creazioni salate come l’éclair al salmone affumicato e crema di tarama o quello al granchio, mela verde e latte di mandorla, e versioni che strizzano l’occhio al mondo dell’arte: l’éclair Joconde, ad esempio, con la riproduzione dello sguardo di Monna Lisa, o l’Hokusai, che riproduce un lavoro del leggendario incisore giapponese.
Anche Stohrer, antichissima pasticceria parigina, ha ceduto al richiamo dell’originalità proponendo un éclair al foie gras e fichi; in sintesi, non si è à la page se non si è capaci di spaziare sul tema in maniera ardita, persino eccentrica.
Molto umilmente, io posso dirvi che gli éclairs a Parigi sono ottimi quasi ovunque, ma che il tradizionale éclair al cioccolato della Maison du chocolat è di una bontà senza discussioni. Quello al caffè di Philippe Conticini, avvolto in una sottile sfoglia di cioccolato al latte, può indicare anche ai meno golosi la strada del paradiso, e l’éclair al limone e yuzu de L’éclair de genie sviluppa nel palato una freschezza senza pari. Nonostante la mia immutabile e immutata devozione nei confronti di Pierre Hermé, non ho avuto occasione di assaggiare i suoi éclairs al cioccolato, ma li raccomanderei a prescindere.
E però un ricordo su tutti sollecita le papille: quello degli éclairs di Marcolini, a Bruxelles, sormontati da una finissima lamina di cioccolato e da una più piccina di croccante. Un’opera divina, o demoniaca, secondo le prospettive, che nessun mortale, né santo né peccatore, dovrebbe lasciarsi sfuggire.
Grazie a Claudia Mondino per le immagini degli éclairs di Marcolini.
[…] erano adeguati all’ultima moda francese. Oggi sono gli éclairs, e ad esportare l’ultima dolce riscoperta d’oltralpe è Christophe Adam che, insieme all’imprenditore Charles Lahmi, ha rilanciato un grande classico […]