Le fave dei morti sono biscotti a base di mandorle della tradizione marchigiana, ma sono anche dei dolcetti mangiati a Perugia durante la Fiera dei Morti, o nel faentino, nel Lazio e in alcune zone della Lombardia. Si assomigliano un po’ tutte tra loro e sono tutte legate, come è facile intuire, al periodo della commemorazione dei defunti.
In Liguria per il 2 novembre si preparano stoccafisso e bacilli (una varietà di fave secche piccole e scure). Pare che una zuppa di fave venisse distribuita ai poveri dai monaci dei conventi veneziani, tradizione presente anche nel modenese ed in Ciociara, in particolare nella cittadina di Aquino.
Favi a cunigghiu (le fave a coniglio, perché si mangiano incidendo la buccia con i denti come farebbe un coniglio) sono tipiche di alcune zone della Sicilia.
Insomma, le fave sono il fil rouge che da nord a sud unisce le tradizioni gastronomiche legate al culto dei morti, e, cosa che non risulta difficile da credere, non sono una tradizione odierna.
Era opinione diffusa nell’antichità che lo stelo privo di nodi di questa pianta le permettesse di essere un agile mezzo di comunicazione tra il mondo dei vivi e l’oltretomba, c’era chi riteneva che i suoi frutti contenessero le lacrime dei morti e chi credeva che le macchie scure sui suoi fiori formassero una Tau (iniziale di Thanatos ossia morte in greco).
Pitagora, pur essendo tradizionalmente considerato il padre del vegetarianismo in Occidente, si asteneva categoricamente dal mangiarne proprio per questo stretto rapporto tra fave ed aldilà, anche se c’è chi sostiene che in realtà questa sua avversione fosse banalmente dovuta ad un problema di favismo.
Ovidio ricorda che nel corso dei Parentalia, la festa che i Romani dedicavano ai parenti defunti culminante nel 21 febbraio, ossia i cosiddetti Feralia, esisteva un rito dedicato alla dea Tacita. Tale rito, tra le altre cose, prevedeva che una vecchia attorniata da giovani fanciulle mettesse tre grani d’incenso sotto la porta, legasse fili ad un fuso e si mettesse in bocca sette fave nere.
Nel corso dei Lemuria, a maggio, il pater familias usava gettare per nove volte dietro le spalle baccelli vuoti di fave (o fave nere) per placare i lemuri, ossia le anime dei morti che non trovavano pace.
Per i cristiani le fave divennero addirittura cibo di precetto nel 998, quando l’abate Odilone di Cluny, padre spirituale della festività legata ai morti nella cristianità, concesse una razione di fave notturne ai monaci raccolti in preghiera.
Che siate superstiziosi o semplicemente amanti delle tradizioni, il 2 novembre non dimenticate di mangiare un piatto di zuppa di fave o semplicemente una fava a base di mandorle, zucchero ed albumi.
Per chi volesse approfondire: Alessandra Pelagalli “Le Fave dei morti, fra storie e antichi riti”, Albano Editore.
La foto delle fave è di Michele Marri.