Sono il simbolo commestibile di un Paese, più ancora delle enormi casseruole di cozze, del cioccolato e delle favolose birre. Belgio e patate fritte sono concetti inseparabili: i Belgi riescono nella difficile impresa di battere gli Statunitensi quanto a consumo pro capite di queste dorate e croccanti delizie che però, proprio nella loro patria, sono doppiamente in pericolo.
Foto di apertura: http://visitbrussels.be
Nonostante la lunga e accanita diatriba con i francesi, pare ormai assodato che le patate fritte nascano in Belgio. Sulle rive della Mosa, dicono alcuni, dove l’abitudine di friggere piccoli pesci pescati nel fiume veniva sostituita, quando in inverno il fiume ghiacciava, dall’uso di tagliare le patate in dimensioni analoghe e friggerle nello stesso modo. E’ la tesi di Joseph Gerard, storico belga, che attesta l’esistenza delle patate fritte almeno dal 1680. Ma altri fanno risalire l’uso di friggere le patate a bastoncini al XVI secolo, dal momento che sembra siano citate già in Ouverture de cuisine, il ricettario manoscritto di Lancelot de Casteau, di Mons, in Vallonia, vissuto appunto tra ‘500 e ‘600.
E dunque, perché nei paesi anglosassoni le patatine fritte prendono il nome di french fries? E’ il destino di Poirot, come dicevo, mai rassegnato ad essere considerato francese anziché belga dagli Inglesi con i quali entra in contatto. L’origine del nome viene da alcuni rintracciata durante la Prima Guerra Mondiale, quando soldati americani avrebbero frettolosamente definito francesi quelle squisite pepite dorate che venivano servite da Belgi francofoni, ma in realtà se ne sa ben poco e, come nei più appassionanti romanzi gialli, inclusi quelli che hanno per protagonista Poirot, esistono svariate ipotesi, persino una pista messicana. Il fatto che anche in Messico si parli di papas a la francesa dà da pensare: bisognerebbe appurare se ciò dipenda dall’influsso americano o piuttosto, come suggerisce qualche acuto estimatore delle frites, il percorso sia stato inverso. Non dimentichiamo che nel 1862 l’esercito francese intervenne in Messico stabilendovi poi come regnante Massimiliano d’Asburgo: i Messicani potrebbero aver conosciuto a quei tempi les frites, e averle legate indissolubilmente, nella denominazione, all’esercito invasore. Un piccola notazione per amore del paradosso: Massimiliano aveva sposato Carlotta del Belgio.
Ma veniamo ai nostri tempi: cos’è che rende les frites belges diverse e migliori delle comuni patate fritte? A voler rispettare la tradizione, devono essere tagliate a bastoncini non sottilissimi ma di almeno un centimetro di lato, devono essere sottoposte a doppia frittura, preferibilmente in grasso di bue. Servite in coni di carta, vengono di solito accompagnate con una salsa; la più comune è la maionese, ma ne esistono innumerevoli varianti. La doppia frittura consiste in un primo passaggio nel grasso a temperatura moderata, per cuocere le patate anche all’interno, e un secondo, al momento di servirle, ad alta temperatura, per renderle croccanti.
Non vale neanche la pena di precisare che deve trattarsi di patate fresche, non surgelate e precotte. La varietà ideale, e quella tradizionalmente più usata, è la Bintje.
Oggi, dunque, le patatine fritte comunemente note come french fries sono diverse da quelle belghe: più sottili, più lunghe, quindi meno carnose. Ma è proprio questo il problema: il gusto e le abitudini subiscono un’omologazione a livello mondiale, e così la frite belga diventa fuori moda. Il risultato è che la Bintje rischia di scomparire: le sue ridotte dimensioni non sono adatte a produrre patatine sufficientemente lunghe, appetibili per i consumatori soprattutto anglosassoni e per l’industria dei surgelati. Da regina del mercato, si sta trasformando nella sua cenerentola. Coltivata per la prima volta proprio in Belgio ai primi del ‘900, divenuta presto diffusissima nei Paesi Bassi, oggi viene gradualmente soppiantata anche in quelle terre da altre varietà di maggiori dimensioni e più resistenti, dunque più facili da coltivare. Il mercato globale, insomma, disdegna la Bintje. E la tradizione, nonché il gusto, ne fanno le spese.
Il secondo pericolo riguarda i frietkots, i chioschi mobili che da sempre vendono patate fritte sulle strade delle città belghe. Un’istituzione, fino a poco tempo fa. Un censimento approssimativo ne contava 8000. Ma anch’essi stanno gradualmente scomparendo sotto l’assalto congiunto dei fast food e dei borgomastri delle città medesime, che li trovano poco gradevoli esteticamente, avvezzi come sono a collocarsi nelle piazze principali e in prossimità dei monumenti. Eppure rappresentano dei monumenti, in qualche modo, essi stessi, sicuramente un elemento abituale del paesaggio urbano e un’attrazione per i turisti. Raffigurati nell’arte, nei fumetti (altra gloria belga), in foto risalenti agli inizi del ‘900, sono il soggetto privilegiato dei dipinti di un pittore brussellese, Gilles Houben, al quale è stata dedicata una mostra nel 2011 presso la Maison du Folklore et des Traditions di Bruxelles.
In pratica, les frites riescono là dove ogni altro strumento ha fallito: tengono uniti Valloni e Fiamminghi, assumendo, all’occorrenza, persino una valenza politica. Prova ne sia che nel 2011, durante una gravissima crisi istituzionale che ha visto il Belgio restare privo di governo per oltre cinquecento giorni, gli studenti hanno dato vita alla cosiddetta “rivoluzione delle patate fritte”, distribuendo nelle piazze del Paese nel corso delle manifestazioni di protesta le dorate, irrinunciabili frites.
Ad esse, gloria nazionale a tutti gli effetti, sono dedicati persino un museo, inaugurato a Bruges nel 2008, e una settimana tematica in Vallonia ricca di iniziative, concorsi, degustazioni presso friteries selezionate che si attengono scrupolosamente alla tradizione, resistendo alla prevalenza della patatina “alla francese”.
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