Sono ben 1001 le isole e le isolette che formano l’ Arcipelago delle Lofoten, e sarebbero “solo” 1001 tra le svariate miriadi di splendide e suggestive isole e isolette che costellano la Norvegia se non fosse che le Lofoten sono baciate dalla Corrente del Golfo che ne mitiga le acque nonostante si trovino al di sopra del Circolo Polare Artico.
E’ così che lo “skrei”, il pesce viaggiatore, il merluzzo artico, inseguendo il tepore della corrente del Golfo, nel periodo che va da gennaio a fine marzo, dal mare di Barents arriva alle Lofoten per deporre le sue uova.
Ed è proprio questo che ha fatto la fortuna di queste isole che da secoli reggono la loro economia proprio sul merluzzo artico, tanto che già nel 1120 re Oystein, per controllare l’economia locale ed assicurarsi i proventi fiscali, decise che i pescatori in pellegrinaggio, che sino ad allora dormivano sotto le loro barche capovolte, dovessero avere un riparo caldo e sicuro, e fece costruire per loro i “rorbruer”, i tipici capanni in legno su palafitte, per lo più dipinti di colore rosso, oggi caldo riparo per i turisti più che per i pescatori.
E’ nei primi tre mesi dell’anno, quindi, che le Lofoten si destano dal loro torpore e si animano per dedicarsi totalmente alla pesca dello “skrei” ed alla produzione dello stoccafisso.
Alla popolazione formata da circa 24.000 anime, per la quasi totalità contraria per ovvi motivi all’ingresso della Norvegia nella CEE, si aggiungono circa 3000 forestieri che vengono alloggiati nei “sjohus”, edifici a due o tre piani con cucina e servizi comuni. Per sei giorni la settimana (la domenica è di assoluto riposo) e per 18 ore al giorno autoctoni e forestieri vivono in simbiosi per catturare circa 50.000 tonnelate di pesce ogni anno. Si parte la mattina rigorosamente alle sei, quando la polizia della pesca, che regolamenta in maniera rigida la pesca al merluzzo, dà il fischio d’inizio e le linee di fila dei pescherecci prendono il largo ordinatamente, vengono lanciate le reti e con l’aiuto di argani vengono tirate su cariche come in una pesca miracolosa.
Entro la fine della giornata i pesci si puliscono, si eliminano testa ed interiora, quelli di taglia simile si accoppiano, si legano per la coda con un filo di canapa e si mettono a “riposo” sulle rastrelliere rivolte a Sud-Ovest, le “Hesje”, di cui tutta l’isola è disseminata e dove rimarranno per circa tre mesi ad essiccare. Il resto del lavoro lo farà il vento secco artico.
I gabbiani, di cui l’isola è abbondantemente popolata, pare abbiano oramai imparato a tenersene ben al largo, sia per la posizione obliqua delle “Hesje” e sia perchè i pesci sono messi ad essiccare dalla parte della pelle. Questo è quanto mi ha spiegato un pescatore del villaggio di Å quando gli ho espresso il dubbio che mi ha accompagnato lungo tutto il mio viaggio alle Lofoten alla vista dei gabbiani, ed io non posso che dare per buona la sua spiegazione.
Solo una piccola percentuale dei pesci di taglia minore viene invece messa sotto sale per circa un mese e poi essiccata, per diventare “baccalà”.
Ai ragazzini di rientro dalla scuola viene riservato, dietro pagamento, il compito di tagliare le lingue che, una volta fritte, rappresentano una delle poche prelibatezze locali.
Se le teste, una volta essiccate, prendono il volo per la Nigeria, dove diventeranno zuppa, se dal fegato si ricava il famigerato olio, se le uova diventano una sorta di caviale, la maggior parte della produzione di stoccafisso e baccalà è invece esportata in Italia, da quando nel lontano 1432 il nobile veneziano Piero Querini e 15 membri superstiti del suo equipaggio fecero qui naufragio e contribuirono così alla diffusione dello stoccafisso in tutto il bel paese; il resto della produzione, invece, è esportata in Portogallo ed in Spagna.