Giaceva lungo la via delle spezie; anzi, fu in grado di attrarre a sé e deviare il percorso della via delle spezie: Palmira, la città di marmo, splendida ed elegante come poche altre, è oggi un complesso di affascinanti rovine messe a rischio dalla situazione attuale della Siria.
“Palmira, città famosa per la posizione, piacevole per le ricchezze del suolo e per le acque, racchiude in un ampio tratto campi con sabbia da ogni parte e, come isolata dalle terre dalla natura, è in una condizione particolare fra i due sommi imperi dei Romani e dei Parti, sempre preoccupazione per entrambi alla prima discordia“. Così scriveva Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia nel periodo in cui la città si avviava alla massima fioritura. Sorta in un’oasi nel deserto, documentata fin dal II millennio a.C. col nome di Tadmor, ribattezzata poi dai Romani, Palmira iniziò ad affermarsi come città carovaniera ai tempi dei Seleucidi, i sovrani di età ellenistica che governarono l’impero di Alessandro Magno dopo la sua morte, ma godette di una fortuna crescente con lo stabilirsi e il rafforzarsi del dominio romano in Siria.
A farne un centro commerciale di primo piano e di grande ricchezza fu la via delle spezie e della seta.
La via seguiva una rotta che, partendo dalla Cina, si congiungeva con un percorso proveniente dall’India e attraversava l’attuale Uzbekistan, passava per Teheran e giungeva a Palmira per poi dirigersi verso i porti di Tiro e Antiochia dai quali le merci raggiungevano l’Europa. L’Estremo Oriente cinese e indiano forniva tessuti preziosi, profumi, spezie, richiestissime nelle cucine romane; il Medio Oriente attendeva dall’occidente olio d’oliva e vini. Lo scambio, fitto e redditizio, ebbe inizio con le conquiste di Alessandro Magno, che aprì relazioni tra due mondi distanti e creò, di fatto, una strada. Più d’una, in realtà, giacché il commercio di spezie e sete si muoveva anche lungo una rotta marittima che dalle coste occidentali dell’India approdava al Golfo Persico passando poi sempre per la Mesopotamia: rotta inaugurata da Nearco, un ammiraglio della flotta di Alessandro, al ritorno dalla spedizione in India. Un’altra direttrice marittima partiva dal Golfo Persico per raggiungere la città carovaniera di Petra circumnavigando la penisola arabica e attraversando il Mar Rosso.
Lungo la rotta terrestre, città fungevano da nodi di scambio, luoghi di sosta e ristoro per le carovane ma anche centri di organizzazione del traffico commerciale e dell’imprenditoria ad esso connessa. Palmira brillava tra queste. La sua classe dirigente era non a caso composta da famiglie di mercanti, da capicarovana e manager: una vera e propria oligarchia mercantile le cui fortune furono favorite e quasi costruite dai Romani, o, più precisamente, dalla tensione poi sfociata in pace tra l’Impero Romano e l’Impero dei Parti. L’uno e l’altro erano portatori di forti interessi commerciali sulle rotte carovaniere, l’uno e l’altro commerciavano con e attraverso Palmira. Quando la città ricadde sotto l’influenza romana, non cessò il suo commercio con i Parti e conservò sempre una sua autonomia; in più, dopo il fallito tentativo di Traiano di conquistare la Partia, il suo successore Adriano ristabilì la pace nell’area: la situazione di equilibrio geopolitico, unita alla protezione dei Romani, lanciò definitivamente Palmira come centro privilegiato dei traffici, consentendole di attrarre a sé le carovane distogliendole dai loro itinerari abituali lungo il corso delll’Eufrate.
Tra il II e il III secolo d.C. Palmira divenne un crocevia di culture, oltre che di scambi, come testimoniano l’architettura, le iscrizioni (spesso bilingui: in Aramaico e in Greco) e la religione sincretistica; la sua crescita le consentì di aprire avamposti commerciali in paesi lontani, a Babilonia o a sud, presso le foci del Tigri e dell’Eufrate, creando fondachi che includevano caravanserragli, magazzini di stoccaggio, uffici e un tempio. Filiali delle società commerciali palmirene erano presenti persino in Europa. Il cinnamomo e la sua parente cinese cassia, il pepe, la senape, la terra merita che noi conosciamo come curcuma, il sesamo, il papavero e lo zenzero transitavano per Palmira prima di raggiungere l’occidente romano in cui erano apprezzatissimi non solo per gli usi culinari ma anche farmacologici e cerimoniali. Eppure altre città erano meglio collocate, su itinerari più brevi e più agevoli: circondata dal deserto e da barriere naturali, Palmira sembra fosse priva dei requisiti per diventare tappa privilegiata per il traffico carovaniero. Una città carovaniera necessita di grandi quantità di cibo, acqua, risorse, soprattutto quando raggiunge una popolazione che pare si aggirasse tra le 150.000 e le 200.000 unità. Gli esiti, ancora parziali, del progetto di ricerca siriano-norvegese “Palmyrena“, volto a indagare le relazioni tra la città e le aree circostanti, rivelano che nell’hinterland di Palmira dovevano trovarsi campi coltivati e fattorie che rifornivano la città. Lo suggeriscono tracce di serbatoi e opere di canalizzazione e i resti di una ventina di villaggi. Ma i recenti avvenimenti in Siria hanno posto fine, almeno per il momento, a qualsiasi ricerca.
Resta il fatto che la lussuosa e fiorente Palmira decadde progressivamente e irreversibilmente a partire dalla fine del III secolo. Nel 227 d.C. nella Mesopotamia meridionale i Sassanidi sostituirono i Parti, dando vita ad una nuova minaccia per Roma e creando difficoltà al commercio. Nell’ambito del conflitto che ne seguì si inserì la vicenda di una donna leggendaria che governò Palmira in nome del figlio ancora bambino dopo l’assassinio di suo marito, secondo alcuni ordinato da lei stessa: la regina Zenobia. Donna tra le più belle dell’oriente, doveva avere un’ambizione pari almeno all’avvenenza, giacché si diede ad una politica espansionistica che la condusse ad occupare l’Egitto e parte dell’Anatolia e a dichiarare Palmira indipendente, suscitando l’inevitabile reazione di Aureliano, che inviò truppe, represse la ribellione, assediò la città e catturò Zenobia portandola prigioniera a Roma.
Ciò che rimase di Palmira divenne un villaggio di scarsa importanza: con lo spostamento delle rotte carovaniere verso nord, l’Anatolia e Costantinopoli, che seguì alla destabilizzazione politica dell’area, la Siria si trovò fuori dai percorsi mercantili. Secoli dopo, le esplorazioni dell’età moderna avrebbero aperto nuove rotte marittime e posto la pietra tombale sull’antica via della seta e delle spezie. A rievocarla, fino a quando in Siria c’è stata pace, si svolgeva ogni due anni il Festival della Via della Seta, tra Palmira, Aleppo e Damasco.
Di Palmira, la sposa del deserto, resta un sito archeologico tra i più belli del mondo, oggi al centro di una guerra civile e tragicamente a rischio, nell’indifferenza generale che del resto non sembra intaccata nemmeno dalle notizie delle stragi di civili. La situazione viene monitorata da un gruppo di archeologi che la aggiorna attraverso la pagina Facebook Le patrimoine archéologique syrien en danger, che vale la pena seguire, se si riesce a sopportare lo spettacolo delle bombe sul Krak dei Cavalieri o della distruzione del minareto della Grande Moschea di Aleppo.