Tutti noi conosciamo la Sardegna per le belle spiagge e il mare di un colore che non ha eguali nel mondo, ma esistono angoli di quest’isola che ai più risultano sconosciuti. In questi luoghi poco visitati dal turismo di massa possiamo trovare tradizioni e cibi insoliti dalla storia antica e dai sapori di un tempo.
Su filindeu, il piatto di cui vi parlerò, è legato alla tradizione religiosa di Lula, un paesino della Barbagia. In onore di San Francesco ogni 1 maggio e 4 ottobre si effettua una suggestiva processione al santuario del paese, a circa 30 km da Nuoro. Il santuario si trova nei pressi di una grotta dove si dice trovò rifugiò un giovane nuorese accusato di omicidio alla fine dell’800. La leggenda vuole che il giovane, nonostante professasse la sua innocenza, fosse ricercato dalla giustizia e che per nascondersi avesse trovato rifugio proprio in quella grotta. Quando fu convinto a costituirsi, venne sottoposto a processo ma alla fine fu dichiarato innocente. Come ringraziamento al Santo, il giovane scagionato fece erigere un santuario nei pressi del luogo dove passò la sua latitanza. Da allora ogni anno i devoti Nuoresi partecipano a questa processione di notte percorrendo a piedi i circa 30 km fino al santuario. Una volta giunti a destinazione, per rinfrancare il corpo e lo spirito, ai pellegrini vengono offerti riparo e cibo.
Secondo la tradizione il cibo offerto è appunto ”Su filindeu”. Si tratta di un brodo di pecora nel quale viene cotta una pasta molto particolare, che viene preparata nei giorni precedenti alla festa. La lavorazione di questa pasta è lunga e complessa ma il risultato è unico. Gli ingredienti del morbido impasto sono semplici: semola, acqua e sale. L’impasto viene suddiviso in panetti da circa un etto che vengono lavorati uno alla volta mentre i restanti sono coperti da un panno umido.
Preso un pezzo di pasta, gli si dà una forma cilindrica allungata, si prendono gli estremi con le mani e si allunga il cilindro. Si portano quindi gli estremi a contatto e si uniscono in una mano. Con l’altra mano si prende l’altra estremità e si allunga nuovamente la pasta, ripiegando il doppio cilindro e unendo nuovamente gli estremi su una mano.
Questo lavoro di allungamento e ripiegamento, che raddoppia ogni volta i fili di pasta, viene fatto otto volte in modo da ottenere 256 fili di pasta sottilissima. Questi fili vengono disposti su un piatto rotondo fatto di foglie di asfodelo intrecciate. Il piatto di foglie fa sì che la pasta non si attacchi al fondo e che i fili restino ben distinti e paralleli. Allo stesso tempo, il piatto di foglie secche ha anche la funzione di rendere ruvida la superficie inferiore della pasta. Si procede quindi a rimpastare la pasta avanzata e ad un nuovo procedimento di “stiratura”. Una volta che il piatto è stato interamente coperto da questi fili di pasta paralleli, si ruota di circa 60° e si ripete per altre due volte. Il risultato finale sono tre strati sovrapposti di pasta finissima intrecciata. Il piatto viene infine messo al sole in modo che la pasta asciughi e gli strati si attacchino tra di loro.
Una volta che la pasta è secca, viene spezzata e messa nel brodo di pecora a cuocere. Si aggiunge poi del pecorino fresco acido e, quando comincia a fondere, il piatto è pronto per essere servito ai pellegrini. Non si parla di bontà o meno del piatto, è considerato un piatto quasi sacro e quindi accettato così com’è.
Tutte le foto sono di Lydia Capasso