Che s’adda fa’ per campa’: persino il grande Leonardo da Vinci, com’è noto, per guadagnarsi la pagnotta e la protezione dei potenti dovette occuparsi di cose ben più vili dell’arte e della ricerca tecnico-scientifica, impiegando buona parte del suo tempo nell’organizzazione e nella scenografia di grandi banchetti di corte e feste. Forse contribuendo anche all’ideazione dei relativi menù.
Ma la relazione tra il nostro genio rinascimentale e la cucina, per il resto, è leggenda.
Una leggenda che affonda le sue radici nell’esistenza del fantomatico Codice Romanoff, un insieme di documenti attribuibili a Leonardo teoricamente custodito in Russia, all’Hermitage, ma che il museo e i russi negano di possedere. E che sembra essere la gagliarda e goliardica invenzione di due buontemponi, Shelagh e Jonathan Routh, che su tale leggenda hanno costruito un libro (“Note di cucina di Leonardo da Vinci”, in Italia edito da Voland) in cui sostengono di riportare gli appunti culinari di Leonardo presi di peso dal Codice, anzi dalla sua copia realizzata nel 1931 da tal Pasquale Pisapia.
Una beffa un po’ in stile teste di Modigliani, per intenderci. E del resto basta sfogliare il libro per rendersi conto che tutta la parte introduttiva alle note leonardesche suona grottesca, totalmente priva di citazioni delle fonti, facendo emergere la figura di un cuoco pasticcione, mancante di qualsiasi senso pratico, che tenta di applicare il suo genio al miglioramento della gestione delle cucine ideando macchine sovradimensionate agli scopi: una gigantesca pressa azionata da tre cavalli per schiacciare le noci, o un tritamanzo per il cui funzionamento sono necessarie decine di uomini. E ancora: il disegno di un faro viene spacciato per un modello di macinapepe; e al vinciano si attribuisce il progetto di un cavatappi per mancini, dichiarando apertamente che ai tempi non c’erano tappi da cavare, dal momento che le bottiglie si tappavano con la cera.
Il Leonardo dei coniugi Routh dà consigli per pulire le tovaglie macchiate di sangue a causa di incidenti o omicidi, parla delle proprietà delle erbe medicamentose, si interroga su come migliorare il biancomangiare e propone ricette di pietanze stomachevoli, oltre a manifestare ripetutamente la sua avversione per la polenta e a inventare gli spaghetti.
Tutto ruota intorno ad una storia che, se fosse stata vera, sarebbe stata affascinante: Leonardo che, dopo aver arrotondato i propri magri introiti, lavorando anche in una taverna, la Locanda delle Tre Lumache, al tempo in cui compiva il suo apprendistato presso il Verrocchio, avrebbe aperto poi la Locanda delle Tre Rane, a Firenze, insieme ad un socio che sarebbe stato nientemeno che Sandro Botticelli. Là avrebbe fatto i suoi bizzarri esperimenti culinari, ideando piatti inconsistenti tutti centrati su verdure intagliate e bocconcini minimi in stile nouvelle cuisine, attirandosi le ire degli avventori e anche del suo socio, critico, tra le altre cose, su un menù illustrato ma incomprensibile perché scritto da destra a sinistra. Di tale vicenda resterebbe traccia, appunto, nel Codice Romanoff, pervenuto all’Hermitage di Leningrado (oggi San Pietroburgo) in seguito ad alterne quanto oscure vicende, là reperito e trascritto dal sunnominato Pasquale Pisapia.
La burla trova facile diffusione grazie al fatto che si ritiene sia giunto a noi solo un terzo o poco più degli scritti e disegni di Leonardo, e viene alimentata dal coinvolgimento di Leonardo nell’ideazione dei banchetti sforzeschi (presso la corte di Ludovico il Moro) e dal ruolo che il principe russo Theodor Sabachnikoff, mecenate e amante delle arti, ricoprì nel recuperare e diffondere alcuni scritti di Leonardo. A lui si fa risalire quella che viene definita sagacemente, nel libro, “pista russa”.
Purtroppo la realtà è come sempre avara di storie intriganti, e del presunto interesse di Leonardo per la cucina a noi resta solo qualche traccia nel Codice Atlantico, in cui, tra appunti e disegni di meccanica, anatomia e geometria, fa capolino qualche progetto che agevoli il lavoro dei cuochi: girarrosti meccanici, forni particolari.
E ci resta la convinzione che, qualora Leonardo si fosse occupato anche di ricette, avrebbe prodotto certamente qualcosa di appetibile, almeno in rapporto ai gusti, non proprio delicati, della sua epoca.